venerdì 12 febbraio 2016

Confessioni di un exchange student

C'è un angolino d'America dove ho passato un anno della mia vita, quello dai miei 17 ai quasi 18 anni. E' nell'East Coast, a metà strada fra Washington e New York. Un giorno di agosto ci sono piombato, accolto da una famiglia desiderosa di ospitare un ragazzo straniero. Così, come sempre maggiormente sta accadendo a studenti delle superiori d tutto il mondo, mi sono trovato tutto a un tratto sotto a un nuovo tetto, in mezzo a gente che non conoscevo e che non parlava la mia lingua. Eppure lì per lì non ho provato lo shock di cui ero stato avvertito. Sono stato accolto in modo gentile e sistemato in una larga stanza per gli ospiti nel basement (il seminterrato moquettato e dotato di mega tv e divanone in pelle, sede di tutte le battaglie a Call of Duty e dei pigiama party della casa). Nella mia nuova famiglia vivevano 3 fratelli più piccoli di me, un padre costaricano naturalizzato americano e una madre americana di origini tedesche.

Per me non è stata la figata colossale che ci si potrebbe aspettare (anzi, per certi aspetti è stato un vero disastro). Ho l'impressione che tutti si aspettassero grandi cose da me, e che invece io abbia fatto tutto il contrario...Non ho saputo integrarmi veramente nella famiglia, non sono stato popolare nella scuola, non ho conquistato ragazze, non ho imparato bene la lingua, non sono nemmeno più riuscito a giocare bene a calcio nella mia nuova squadra o a fare un buon piatto di pasta! Analizzando la mia esperienza a posteriori direi che ci sono moltissime variabili in gioco, che ricadono in due categorie principali. La prima comprende il carattere e lo "stato mentale" con cui si arriva. Io ad esempio, per come sono fatto e per l'acuta fase di ricerca di me stesso in cui mi trovavo, sentivo più che altro il bisogno di starmene in pace (mentre questo non è proprio ciò che le famiglie e i compagni di scuola si aspettano da un exchange student). Il secondo gruppo di variabili è compreso nell'ambiente stesso in cui si svolge l'esperienza. Ovvero il luogo, il tipo di famiglia ospitante, la scuola, gli altri exchange students nella zona ecc.

A posteriori mi vien da dire che tutto questo potrebbe essere dovuto al fatto che ero partito un po' inconsciamente, senza essermi chiesto granchè del perchè partivo e del posto in cui andavo. A 17 anni può succedere, non significa che sia per forza così, ma può succedere. D'altronde all'epoca non vedevo l'ora di allontanarmi per un po' dallo studio e dal provincialismo che attribuivo sprezzantemente al mio paese e a tutto ciò che mi circondava. Così, istigato anche da una amica che aveva fatto la stessa esperienza, feci domanda in comune accordo coi miei a Intercultura e fui preso. Sarei potuto finire dovunque in mezzo mondo, e finii a Kennett Square, paese di un qualche migliaio di abitanti nello stato della Pennsylvania. Famoso a livello mondiale per la coltivazione intensiva dei funghi, attività che impregna l'aria di un odore caratteristico e che attira le famiglie meno abbienti (soprattutto messicane) di cui è richiesta la manodopera. Intendiamoci non me ne sto lamentando, a dire il vero non feci nemmeno caso a queste cose mentre ero lì! Poi la nostra casa era lontana dal paese, sul confine con un altro stato (il Delawere) e nel bel mezzo di un labirinto di strade immerso nel verde. Lì l'aria non sapeva di funghi e risalendo un ruscello si poteva raggiungere una riserva naturale con una grande cascata, anche questa immersa fra gli alberi e un labirinto di strade e sentieri che ho imparato presto a conoscere.

La mattina l'autobus giallo dei simpson ci caricava in fondo alla via. Una mezzoretta insieme a uno dei fratelli e ai mocciosetti che abitavano nei dintorni precedeva il suono della campanella (alle 7.35, me lo ricordo ancora!). Non mi piaceva prendere il pulmino, e nemmeno mangiare alla mensa della scuola. Mi sembrava di essere tornato ai tempi delle medie o delle elementari. Così trovavo degli stratagemmi per non dover usufruire di quei servizi. Ad esempio mi portavo il cibo in biblioteca e mangiavo lì per conto mio, nascondendomi fra i libri perchè non era concesso andarci all'ora di pranzo. Ora che ci penso mi vergogno e provo un po' pena per questi miei atteggiamenti. Erano causati principalmente dalla timidezza e dall'agitazione che mi mettevano certi contesti sociali, come la mensa e gli spogliatoi prima di educazione fisica. Ricordo invece il piacere con cui mi recavo a certi "club", attività pomeridiane autogestite da alcuni studenti, come ad esempio quello dei giochi di società. Fra "nerdoni" e persone tranquille, che reputavo simpatiche, mi trovavo a mio agio (sebbene non fossi mai stato un appassionato di giochi di società). Fra gli sport scelsi solo calcio, e mi pento ancora di non aver provato nulla di nuovo mentre ero là. Andai però qualche volta a guardare le partite di hockey su ghiaccio e iniziai un po' ad appassionarmi a quello sport. Sport che ho di recente iniziato a praticare amatorialmente qua in Italia.

Infine ricordo il giorno del ritorno in Italia, l'abbraccio finale e il distacco dalla famiglia che mi aveva accolto per gli undici mesi precedenti. Non mi uscirono lacrime, come non me ne uscirono durante tutto quell'anno aldilà dell'oceano. Quella sera o la mattina seguente partii con i pochi altri exchange students della zona (che nei mesi precedenti non avevo avuto modo di vedere se non in rare occasioni organizzate dall'associazione) e arrivai a NY, dove nel frattempo erano stati radunati tutti gli italiani ed exchange students di ritorno dall'east coast. Anche in quell'occasione, con centinaia di ragazzi e ragazze da tutto il mondo senza nulla da fare, non mi smentii: dopo un po' che ero in mezzo a quella bolgia, presi le mie cose e andai a cercarmi un posto isolato dove stendermi. Aspettai così, ascoltando la musica su un prato assolato, finchè non arrivò il momento di salire sull'autobus e poi sull'aereo di ritorno. A Milano fui accolto dai miei veri genitori e i miei fratellini, con il più piccolino che non si ricordava più chi fossi. Fu un po' strano, a un certo punto ci fermammo in autogrill e sembravamo degli estranei mentre mi chiedevano se "gradivo qualcosa". D'altronde un anno senza vedersi fa un po' quest'effetto all'inizio. Man mano che ci avvicinavamo e che iniziavo a riconoscere posti familiari sentivo il mio cuoricino scaldarsi. Km dopo km. Poi arrivammo e parcheggiammo, ma lì per lì non vidi nessuno. Mi avevano preparato uno scherzo, un mega gavettone scagliato dalla finestra, ma anche un bellissimo pranzo in terrazzo con tutti i miei amici e parenti più stretti e alla sera una festa super riuscita.

Così mi trovai all'improvviso all'altro estremo: abbracciato dalle persone più care, nei luoghi, nei suoni e nei sapori che conoscevo. Fu bellissimo ma disorientante per alcuni mesi. Appena arrivato dovetti poi mettermi a sudare per recuperare tutte le materie a settembre, e soprattutto per trovare un equilibrio (che forse non avevo mai davvero avuto) a cui però quel "piattissimo" anno in America aveva dato un bel colpo e levato molti piedistalli di sicurezza. Ritrovai la mia ragazza della pre-partenza ma non funzionò, ci mollammo dopo alcuni mesi perchè troppo distanti. Questi 4 anni e mezzo che sono passati dal mio ritorno li vedo ora come un progressivo risveglio dal mio "torpore protettivo", così evidente durante l'anno in America e nei mesi successivi. Torpore che nel mio caso tende a manifestarsi in vari modi: ad esempio con la bassa ricettività nei confronti di ciò che accade intorno a noi; con l'inefficacia della maggior parte delle relazioni interpersonali che si sviluppano; e infine con il limitato riconoscimento e la conseguente limitata espressione delle proprie emozioni. Ci ho lavorato con tutta calma, senza farmi aiutare (se non dai miei amici), e in contemporanea a un processo di interessamento e (ri)scoperta delle mie radici e di ciò che conta davvero per me.

Grazie all'anno all'estero mi sono accorto di avere gli occhi mezzi tappati e sto cercando di aprirli. Non voglio lasciarmi sfuggire le meraviglie che il mondo offre a chi ci sa stare nel modo giusto. Inoltre è grazie all'anno all'estero che ho riscoperto il mio interesse per la natura, ambiente in cui sono cresciuto (senza però dargli valore) e che sta indirizzando i miei studi universitari.

Grazie

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