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lunedì 16 marzo 2020

Road Trip nei Balcani - Parte II. "Caccia alla Turbofolk in Serbia, Romania e Ungheria"

Il confine fra Bosnia e Serbia è un ponte sul grande fiume Drina. Da una parte e dall'altra del ponte stanno le 2 dogane. Ricordo la strana sensazione che provo nel guidare sul tratto in mezzo, il confine stesso, concettualmente una "terra di nessuno". Quasi da subito le campagne e i villaggi serbi mi inquietano un po' con la loro regolarità e piattezza infinita. Nelle poche persone che incontriamo sulla strada notiamo volti dai tratti più marcati e dai colori più scuri. 

Dopo Slovenia, Croazia e Bosnia (leggi qui il racconto) siamo ora entrati nel quarto paese del nostro roadtrip: la Serbia. Ma a questo giro non ci fermiamo, tiriamo dritto fino alle porte di Belgrado. Eccetto che per una sosta-bagno nell'unica pensione/hotel di un paesino della campagna serba, dove iniziamo già ad assaggiare un certo gusto transilvanico nell'arredamento. Quando raggiungiamo la capitale è ormai l'ora del tramonto e l'arrivo è molto meno traumatico rispetto alla mattina precedente a Sarajevo. Infatti a Belgrado le strade, i fiumi, le case e qualsiasi altra cosa sono belle larghe e spaziose. Parcheggiamo comodamente nella via che conduce al nostro ostello, ricavato al terzo o quarto piano di uno degli innumerevoli palazzi. Così a pelle e senza nemmeno essere mai stato in Russia, l'aggettivo che mi viene subito alla bocca per descrivere Belgrado è: "sovietica".


Io, N, Vacca e due compagni di avventure
Belgrado

Essendoci arrivata alle orecchie la sua nomea di "città del divertimento notturno" e non volendoci far mancare niente, io e Vacca decidiamo di uscire per le strade buie di Belgrado, mentre Enne preferisce stare in ostello e rilassarsi un po'. Siamo diretti al lungo fiume, dove si concentra la movida belgradese. Mentre attraversiamo il grande ponte di ferro, sento per la prima volta l'istinto di tenere ben stretto il coltellino che ho in tasca. Infatti le uniche persone che incontriamo oltre a tassisti e kebabbari, sono gang di energumeni e gruppi di zingari veramente poco rassicuranti. Dopodiché incontriamo una signora che ci fa, in inglese: "da che parte è la Bulgaria, che vorrei fare autostop?". Non abbiamo idea di quale sia la direzione giusta, ma sappiamo che il confine è a oltre 300 chilometri di strada e che è notte. Vorremmo invitarla a desistere, ma lei ha già capito che non serviamo al suo scopo e si è già diretta altrove.

Raggiunto il lungo fiume, si trovano, una dopo l'altra, le imbarcazioni riadattate a locali (mini-discoteche galleggianti). Sebbene sia martedì o mercoledì, la fila per entrare in ognuno di questi locali è abbastanza lunga. Così ne scegliamo una e ci mettiamo ad aspettare, ma quando è il nostro turno ci dicono che è necessario essere "in lista" per entrare. Facciamo un altro tentativo con un locale praticamente senza fila, i cui bodyguard ci ripetono la stessa cosa. Non so se solo per far scena o se perché effettivamente gli italiani godano di un credito da queste parti, ma dopo un accenno di discussione da parte nostra e, riconosciuto il nostro accento, il bodyguard si ricrede e ci fà: "entrate pure, solo perché siete italiani". Purtroppo dentro non c'è molta gente, si vede che la serata deve ancora decollare. Così ci beviamo un drink e poi usciamo per provare a trovare un locale dove invece vibri la turbofolk, il genere musicale per cui ci siamo spinti fino a qui.

Troviamo la Turbofolk nel locale più vicino al ponte, quello che istintivamente avevamo scartato appena arrivati. Si tratta di un karaoke fra uomo virile ed elegante e donna dai tratti scuri e le tette di fuori. La coppia sta sul palco e canta melodie balcaniche, supportata da delle basi tunz-tunz e dai violenti cori degli spettatori ai tavoli. Tutti conoscono le parole a memoria e cantano, atteggiandosi un po' da tamarri ubriaconi ma visibilmente divertiti. Noi per un po' ci godiamo la scena da un tavolino e, dopo aver pagato a una vecchina-cameriera molto furba il doppio o il triplo del prezzo normale, ci avviamo per la stessa strada da cui siamo venuti.

Uno dei locali sul lungo fiume, da Inspirock.com


Al sole del giorno dopo e nella parte storica e politicamente più importante, Belgrado ci sembra meno brutta. E' domenica mattina e camminiamo tranquillamente per la via pedonale che conduce alla fortezza. Una bimba di 9 o 10 anni riempie la strada di melodie con il suo violino. Agli angoli, nelle bancarelle affollate di turisti, si vendono magliette con la faccia di Nikola Tesla. Due signori, invece, nella loro bancarella scassata vendono lacci per le scarpe: solo quello, lacci per scarpe di tutti i colori (e in qualche modo ci campano anche). La povertà in effetti la si vede un po' dappertutto a Belgrado: dalle onnipresenti auto scassate, ai caffè con i vetri crepati.

Facciamo una deviazione per entrare nel Tempio di San Sava, una fra le chiese ortodossa più grandi del mondo. Nella piazzetta davanti al Tempio ci sono dei ragazzi che giocano a calcio e dei vecchi seduti sulle panchine. La facciata esterna è bizantina e ultra simmetrica. Insomma, fino a qua tutto regolare. Ma quando entriamo, iniziamo a notare cose strane. L'ambiente principale è interamente rivestito da un tappeto rosso. Ai bordi della sala ci sono dei grandi quadri religiosi, ognuno appoggiato su un tavolo. La gente fa la fila dinanzi a queste immagini e quando ci si trova davanti appioppa dei baci alle figure. Nel retro stanno invece facendo dei restauri, per cui si vede soltanto un sacco di plastica protettiva appesa alle pareti e un furgone che in qualche modo è riuscito a entrare dentro al tempio e a parcheggiarsi al centro della sala.

Infine raggiungiamo il Parco della fortezza, la quale fu costruita, distrutta, ricostruita e distrutta di nuovo dal tempo dei romani fino a pochi decenni fa (dopodiché evidentemente si stancarono di ricostruirla e la lasciarono così). Un po' dappertutto sono stati ammassati cannoni e armi belliche di altro tipo, ma anche dei dinosauri che dovrebbero attrarre i bambini verso un museo all'interno delle vecchie segrete. Invece in cima c'è un signore che ci convince a pagarlo per farci tirare delle frecce con il suo arco. Ma soprattutto, dall'alto si vede il fiume Sava confluire nel Danubio. E' con questa immagine maestosa che, poco dopo, lasciamo la Serbia per entrare in Romania.

Il fiume visto dalla fortezza di Belgrado
Una strada a caso di Belgrado
"Iconodulia"ortodossa
La patria, il profano e il sacro durante una passeggiata a Belgrado
E improvvisamente siamo in Romania. Il confine da cui passiamo, praticamente, non esiste. E' segnalato da un cartello, mentre l'unico controllo è eseguito da un ragazzo, non in uniforme, che ci dà un'occhiata sommaria e ci lascia passare. A sera inoltrata arriviamo a Sibiu, graziosa città della Transilvania. Non è un aggettivo ironico, Sibiu è davvero bella. Capitale della cultura europea qualche anno fa e sede storica dell'università. La piazza centrale, su cui si affaccia il nostro ostello, è un piccolo gioiello di architettura: colorate case a tre piani e palazzi delle istituzioni disegnano un largo ovale ciottolato, riempito ai bordi dai tavolini delle osterie e al centro da un grande palco scenico. Le altre vie sono forse meno eleganti della piazza ma piene di colori.

La piazza di Plata Mare a Sibiu, da: https://www.blogromania.it

Un pub transilvano
Il giorno seguente ci avventuriamo per la "Transfăgărășan", il folle passo attraverso i Carpazi voluto da Ceausescu. Costruita all'inizio degli anni '70 per fini militari, viene normalmente chiusa al traffico fra ottobre e giugno per precauzione ed è un classico del Giro di Romania di ciclismo e dei motociclisti di tutto il mondo. Per il divertimento di Enne acconsentiamo a lasciarlo guidare per l'intero tragitto. E' il più tortuoso che io abbia mai percorso. Con noi ci sono anche Srikanth e Aryudha, ma ci stiamo tutti e la carica c'è. Le uniche tappe che facciamo sono all'imbocco della Transfagarajan per pranzare e a metà strada per salire in cima a una delle fortezze appartenute a Vlad III, alias "l'Impalatore", alias il Conte Dracula.

Proprio così, Dracula. Ovviamente, il Conte Dracula come noi lo conosciamo (il vampiro) non è mai esistito...è un invenzione letteraria. Tuttavia, il personaggio cui Bram Stocker si ispirò fu Vlad III, sanguinario ed eroico monarca della regione della Valacchia e protettore del Cristianesimo del 1400, quando l'Impero Ottomano aveva conquistato l'intera penisola balcanica e tentava di spingersi più a nord. Leggenda vuole che Vlad rifiutò la richiesta pervenutagli dal sultano di pagare il tributo e di mandare 500 soldati dei suoi in cambio della pace. Il suo rifiuto consistette nell'impalare da vivi i messi mandati dal sultano. Questo non lasciò alternativa al sultano: dovette dichiarare guerra.

Tuttavia Vlad si rivelò una vera spina nel fianco per il sultano, mettendo a colpo una serie di stragi e imboscate ai danni degli ottomani, e costituì l'effimera speranza anche per il cristianesimo del tempo. Come nelle migliori storie, l'unico modo per sconfiggere il Conte fu di affidarsi al fratello, invidioso e anch'egli guerrigliero. Il fratello sconfisse Vlad e usurpò il suo posto, strizzando l'occhio al sultano. Mentre Vlad fu costretto alla fuga, dopodiché venne imprigionato e in seguito rilasciato, ma solo per essere ucciso a tradimento poco più avanti. La leggenda vuole che la sua testa sia stata portata a Costantinopoli come trofeo.

Oggi la Fortezza Poenari non è nulla di che, essendo stata abbandonata dopo la morte di Vlad nel 1477. Tuttavia incamminarvicisi fa un certo effetto, essendo stata per anni il covo di uno dei più sanguinari uomini della storia. La camminata verso la rocca è ripida e attraversa la vegetazione del posto (principalmente conifere). Un elemento che aggiunge piccantezza alla salita, e di cui fortunatamente vengo a sapere dopo, è che i boschi circostanti sono frequentati da popolazioni di orsi in rapido aumento. Alcuni manichini impalati e sanguinolenti alla fine della salita ci danno il benvenuto alla casa del Conte.



Tornati in macchina proseguiamo la strada, che diventa man mano più estrema e d'alta quota. Questo e la pioggia che inizia a cadere ci esalta, e il cd di Scatman nello stereo fa la sua parte. Arriviamo nel punto più alto e scendiamo nella nebbia più totale sotto la pioggia battente. In teoria ci sarebbe un bellissimo lago da vedere in cima alla montagna ma non riusciamo a trovarlo a causa di una nebbia incredibile (così come fatichiamo a ritrovare la macchina). E a bordo il disagio non si affievolisce, ma anzi contagia pure l'indiano e l'indonesiano. E' pura follia transilvanica ancora per un bel po', con vacca che passa più tempo a urlare e a fare foto sgocciolanti fuori dal finestrino invece che dentro alla macchina.

La serata, una volta di ritorno a Sibiu, non cala di intensità. Questa volta a rallegrare l'ormai inseparabile quintetto è una band metal in tour dalla Svezia che suona nella cantina di un pub. L'indiano e l'indonesiano vengono iniziati all'arte del pogo, che noi contribuiamo in buona parte a istigare fra il pubblico rumeno. Anche lì la birra a buon prezzo non manca e i soggetti che incontriamo non sono affatto male. Ma abbiamo altre mete da raggiungere.

La salita della Transfăgărășan e una testimonianza video riesumata dal cellulare  








Così, la mattina dopo, ci concediamo un ultimo giro per il centro di Sibiu e ripartiamo in direzione della vicina Miniera di Turda. Miniera di sale per oltre 2 mila anni, poi occasionalmente luogo di stagionatura per il formaggio e rifugio antiaereo, dagli anni '90 è stata trasformata in meta turistica e spazio futuristico per feste, concerti e gite di famiglia. Una parte della miniera è stata infatti ricoperta d'acqua e attrezzata per andare in barca, mentre in un'altra ala sono state messe delle giostre, dei tavoli da ping pong, un biliardino e un palco scenico. Ma la cosa più figa resta comunque guardare dall'alto dalla balaustra a inizio discesa.

Verso sera arriviamo a Cluj Napoca, per i più cool "Cluj", città universitaria del centro-nord della Romania. Siamo piazzati in una camera trovata su airbnb. Cuciniamo qualcosa e poi ci facciamo del male con un giovanissimo Di Caprio guardando l'imbarazzante, trashissimo, "The Beach". Il giorno dopo giriamo un po' per il centro di Cluj, che purtroppo è un po' deserta a causa del periodo di chiusura dell'università. L'antica rocca del centro storico è carina, ma la cosa che forse apprezzo di più è il Cimiterul Centrale, un verde cimitero anarcheggiante (stile Pere Lachaise per intenderci) dove incappiamo anche nella processione di un funerale. Poco distante c'è una bella chiesa e una zona niente male, dove ci prendiamo un kebab prima di rimetterci in marcia.

Le campagne che attraversiamo, scandite da tipici covoni di paglia a forma conica, mi ricordano tanto un libro che ho letto prima di partire. Si chiama "Lungo la via incantata" ed è la storia di un giovane viaggiatore inglese e del rapporto speciale che riesce ad instaurare con le terre del "Maramures", la sua via incantata. L'incanto è dovuto alla lentezza di queste campagne e delle tradizioni agricole di sapore medievale, che non sembrano essere state intaccate nei secoli dal mescolamento di popoli rumeno-zingaro-sassoni, ma che invece oggi iniziano a trasformarsi a causa della globalizzazione.

La miniera di sale di Turda. Foto da rollingstone.it/  
Arte moderna a Cluj Napoca Monitorul de Cluj 



Foto dall'articolo "Maramures: carri, cavalli ed internet" di gmgalasso61.wordpress.com 
Nel pomeriggio riprendiamo la strada perché vogliamo avvicinarci a Budapest il più possibile, visto che abbiamo in tasca un biglietto giornaliero per lo Sziget Festival. Dormiamo in una camera che è parte di una corte magiara o qualcosa del genere, al confine con l'Ungheria. L'arredamento, la signora affitta-camere e l'atmosfera di quel posto sono alcune delle cose più tradizionali in cui incappiamo in questo breve viaggio. Siamo totalmente fuori dalle rotte turistiche, e ci voleva proprio una deviazione di questo tipo.

Lasciata la Romania ed entrati in Ungheria, puntiamo dritti a Budapest. In un autogrill facciamo il pieno a un buffet che offre la tipica colazione ungherese: uova fritte, wursterazzi e salame. Arriviamo a Budapest per l'ora di pranzo e ci dirigiamo subito all'isola di Obùda dove si tiene il festival più grande d'Europa. Sebbene ci aspettassimo un gran casino, l'atmosfera è abbastanza tranquilla nei dintorni dell'isola e riusciamo a trovare un parcheggio gratuito fra la stazione e un giardino, a pochi passi dal ponte dell'isola. Ci chiediamo dove sia la fregatura, ma la fregatura non c'è!

All'ingresso del festival non ci permettono di intrufolare l'alcol che avevamo cercato di far passare per thé freddo. In compenso incontriamo tre ragazze del nostro del liceo in Italia che stanno in fila proprio davanti a noi. Più avanti durante il corso del festival incontreremo anche alcuni altri amici che non sapevamo essere lì... D'altronde lo Sziget negli ultimi anni sta diventando uno dei punti di incontro della "generazione erasmus" di tutta Europa. Data la location centrale e il giro di artisti che vengono coinvolti, è un'idea che funziona e una calamita micidiale.

Disegno e descrizione a cura di BUDAPEST - WordPress.com 
La parola chiave, il filo rosso della miriade di attività (non solo musicali) che accadono ogni giorno e notte allo Sziget di Budapest, è "divertimento". Tutto è finalizzato a questo, e un po' anche al profitto. Nata come una festa della libertà, una specie di woodstock 2.0, lo Sziget è diventato per forza di cose un evento più commerciale. D'altronde far mangiare e bere, rispondere ai bisogni biologici e trovare una piazzola per la tenda di 2 milioni di ragazzi, oltre che gestire il programma musicale con star da tutto il mondo, richiede grande organizzazione. E tutto sommato ci divertiamo infatti, anche se non becchiamo le nostre band preferite e rimaniamo un po' storditi dal caos in cui piombiamo (col passare delle ore e l'ingresso nella zona calda del festival ci accorgiamo che di casino ce n'è, eccome se ce n'è...!). Verso le 3 o le 4 di notte, stremati, rinunciamo al nostro piano autodistruttivo di tornare in Italia in after.

Ci sistemiamo con i sacchi a pelo in un parchetto residenziale vicino alla nostra macchina e portiamo a casa qualche ora di sonno ristoratore. Il mattino dopo, l'ultimo del nostro viaggio, ci rimettiamo in cammino dopo aver testato un'altra colazione ungherese (un po' più sobria questa volta). E' una domenica di agosto ma le strade ungheresi, slovene e italiane che percorriamo sono mezze vuote. Raggiungiamo senza intoppi nomi di città finalmente comprensibili e via via più famigliari. Così arriviamo a Modena Sud dopo circa 8 ore di viaggio, in tempo per permettere ad N di riprendersi un attimo e presentarsi in tempo a lavoro il giorno dopo.

L'ingresso all'isola all'isola dello Sziget (foto di ilovedunakanyar.hu) e, in video, uno dei momenti più belli del nostro Sziget




Di questo viaggio ci rimarranno: un cartone pieno di nomi di persone incrociate lungo la nostra strada e nomi di città impronunciabili; un mucchio di monete di valuta diversa; ricordi confusi, nebulosi come l'aria del Kino a Sarajevo o la nebbia da tagliare a fette sulla cima della Transfăgărășan. In compenso ci ricordiamo molto bene l'interno della macchina di N, ognuno con il suo posto preferito (il mio quello dietro, fra le briciole e le magliette sporche...ma con lo spazio per stendersi). 

Non scorderò mai: il vento croato seguito da un tramonto che scalda il cuore e la pelle ruvida; il sapore che ha il primo morso di un Cevapi quando hai veramente fame; le vibrazioni dello stereo di una suzuki su di giri mentre pompa gli ACDC sotto la pioggia battente; le bancarelle, i fori di proiettile e le tombe bianche di Sarajevo; l'adrenalina di un ballo zingaro al suono di un orchestra di trombettisti.  

Cosa cambierei: I tempi. Forse anche il mezzo, perché sarebbero posti da assaporare lentamente. Ma non sempre si ha un mese di tempo. E quindi per questa volta è andata bene così, con un'ossatura di organizzazione e una macchina funzionante. Ma mi riprometto di tornare ancora nei Balcani e di esplorare di più.     

Mi porto dietro questa cornice po' strana, povera, trash, affascinante -in una parola, balcanica- che ci ha accompagnato e che si è manifestata più o meno ovunque (nei luoghi, nei cibi, nella musica, nelle persone). Ci penso e non posso che sorridere un po' amaramente, perché è rimasto un pizzico di nostalgia dentro di me.


E infine un grazie speciale ai miei compagni di viaggio: a Vacca per la pianificazione di buona parte del viaggio e a N per il bolide su cui abbiamo viaggiato e per molte delle foto che avete visto









martedì 8 gennaio 2019

Marocco


E' iniziato per gioco, come una battuta fra amici in una serata di inverno. Poi in qualche modo l'idea è rimasta lì, nelle nostre teste, e si è concretizzata qualche mese dopo quando abbiamo prenotato il volo. Bologna-Siviglia, in modo da poi arrivare in Marocco in nave "come i veri marocchini". Infatti la nostra idea è stata da subito di vedere il Marocco (da Nord a Sud) utilizzando i mezzi pubblici locali e adattandoci il più possibile allo stile di vita marocchino. Non è che avessimo molto di più in programma, né qualche cosa di prenotato eccetto l'ostello per la prima notte; eppure alla fine tutto è andato bene. Eccovi la storia!

Leonardo (detto il "gov"), Michele (detto "MadMax"), Francesco (detto "Vacca") e me. Con tutti e questi 3 soggetti sono stato amico per molti anni, ma non abbiamo mai viaggiato insieme (eccetto gite di classe o weekend in montagna ecc). Un vero viaggio mai. Ma non ho alcuna preoccupazione a riguardo, anzi sono veramente contento che si stia concretizzando. In effetti bisogna essere dei pazzi per accettare una proposta di road trip in Marocco senza macchina né programma ad Agosto. Fatto sta che, all'alba del giorno della partenza, ci dirigiamo verso l'aeroporto accompagnati dalla mamma di Vacca e poi ci imbarchiamo. Ci siamo, sta per succedere, ma a dividerci dal Marocco c'è la terra intorno a Siviglia (la quale, come scopriamo grazie a un tassista, non è sul mare!!) e il mare stesso. Passiamo il primo giorno a girovagare per le afose vie della città e la sera in un locale dove suonano (e ballano) flamenco. La città e l'atmosfera non sono male, ma allo stesso tempo non c'entrano molto con il Marocco. C'abbiamo proprio un chiodo fisso in testa: vogliamo arrivare in Marocco il prima possibile. Così il giorno dopo prendiamo un bus fino ad Algeciras, dalla quale ci si può imbarcare per Tangeri città. Una volta sul traghetto e fatto il controllo passaporti, parte l'adrenalina per davvero. All'improvviso, senza nemmeno aver messo piede a terra, ci accorgiamo del cambio di cultura intorno a noi. Sul traghetto ci sono soltanto famiglie marocchine e lo spagnolo è già sparito.

Lo sbarco a Tangeri è trionfale. Non soltanto a livello paesaggistico -perché Tangeri è veramente bella- ma anche emotivo. Siamo arrivati, immediatamente avvolti dal caldo del sole di mezzogiorno che batte sul porto quasi deserto e poi gradualmente risucchiati dal chaos della città man mano che saliamo verso il centro. Sì, "saliamo", perché Tangeri è tutta su e giù, costruita fra gli scogli e i promontori che danno sul mare. E questo mi riporta a quello che forse è stato il momento più bello della nostra permanenza a Tangeri, avvenuto nel pomeriggio dello stesso giorno del nostro arrivo o del giorno seguente. Durante un'esplorazione al di fuori del Suk, ovvero zona antica e centrale della città, capitiamo in un posto curioso. Ci troviamo al tramonto su una distesa di rocce più o meno lisce che dà su un pezzo di città sottostante e sul mare. Nella roccia sono state scavate decine di tombe e ci sono degli innamorati seduti e alcune famiglie a fare il picnic. Noi da lì scendiamo di poco seguendo una strada residenziale ed entriamo in un caffè sensazionale, costruito su 7 o 8 piani a cavallo della scogliera. Lì è anche dove assaggiamo il primo té marocchino. All'apparenza sembra più un insalata in tazza che un the, ma al gusto -signori- al gusto è dolcissimo ma è "tanta roba". Per il resto, Tangeri avrebbe tanto da offrire ma è anche molto lasciata andare. Camminando un po' fuori dal centro si percepisce dall'architettura di certi palazzi l'importanza storica e diplomatica della città, ed entrando in certi caffé in stile parigino si respira ancora l'importanza culturale che Tangeri doveva avere a suo tempo. Infatti la città è sempre stata internazionale per via della sua posizione geografica e del suo porto. Al cinema troviamo una programmazione molto interessante e approfittiamo per guardarci un buffo film egiziano ("Alì, la capra e Ibrahim").

Noi e il té marocchino
Eppure ci dicono che oggi Tangeri viene tagliata fuori dai circuiti turistici tradizionali perché pericolosa. In effetti vediamo molta povertà e molti mendicanti in giro per il centro della città. Non a caso è qui che ci capitano alcune delle principali disavventure del viaggio, sebbene in buona parte cercate da noi stessi. In particolare ci succede che l'ennesimo tipo, di nome Rachid, ci approccia durante una nostra peregrinazione in cerca di un posto dove mangiare. Promessoci di portarci in un posto tipicamente marocchino e poco costoso, acconsentiamo di seguirlo, anche perché non ne possiamo più di cercare un posto dove mangiare, e così iniziamo ad attraversare mezza città al suo seguito. Attraversiamo piazzette, scorciatoie e mercati coperti che probabilmente non avemmo mai trovato da soli. Arrivati al ristorante, che ovviamente si rivela appartenere a qualche suo parente, ci viene proposto un menù completo a circa 10 o 15€, che decidiamo di prendere. Il cibo non è male e alla fine ci viene chiesto il prezzo concordato all'inizio. Il guaio, però, è che nei 2 giorni successivi non ci scaveremo più Rachid di torno. Infatti prima di andarcene, grazie al mago degli affari Francesco, ci accordiamo per andare a passare la notte seguente sulla terrazza di Rachid. Il mito della notte passata "sui tetti", sotto al cielo stellato della notte marocchina, ci ha accompagnato fin dall'inizio e non vogliamo farci perdere l'occasione di risparmiare sui 7 o 8 € euro dell'ostello. Così il giorno dopo ci ritroviamo con Rachid per lasciare gli zaini sul terrazzo, ma finiamo per mangiare lo stesso cibo nello stesso posto del giorno prima, sebbene non vogliamo. Eppure il peggio deve ancora arrivare...Una volta pronti per andare a dormire torniamo alla casa, dove in realtà non abita Rachid ma una coppia di giovani poverissimi. Casa loro è monolocale al secondo o terzo piano con un cucinino e un bagno senza acqua né gabinetto, ma semplicemente un buco collegato a chissà dove. Il terrazzo è degno della casa, sporco e con tanto di mamma e cagnolini allevati in un angolo dello stesso, proprio ai nostri piedi. La notte si rivela abbastanza disastrosa in termini di ore dormite. Non per un motivo soltanto, ma per una serie di eventi in successione. Prima di tutto sono l'agitazione, o forse solo il senso di inquietudine provocati dal luogo, ad accompagnarci prima di prendere sonno. E' in questo stato che, dopo un po', inizio a preoccuparmi per il passaporto e per parte dei miei soldi lasciati nello zaino. Mi metto a frugare fra le mie cose mentre gli altri si sono ormai addormentati. Sebbene non ricordi bene dove li abbia messi, mi pare proprio che siano spariti. Leo, che dorme di fianco a me, si sveglia e poi anche gli altri. Cerco ancora un po' ma, visto che né i soldi né i documenti sembrano saltare fuori, decido di scendere e andare a parlare con i 2 inquilini. Sentitomi scendere si alzano dal letto anche loro e salgono su in terrazza, ripetendo che "non può essere, non può essere, non è possibile" eccetera eccetera. Alla fine, cercato un altro po' con la luce, viene fuori che è ancora tutto nello zaino, in una taschina che mi era sfuggita. Il sollievo conseguente, e le meritate imprecazioni che ricevo, ben presto lasciano spazio a un sonno rilassato. A quell'ora della notte, si sente ancora un certo baccano e una musica come di festa africana, con canti e tamburi. Per quanto mi riguarda la stanchezza ha ancora la meglio sui tamburi, ma non sul Muezzin... Già dalle 4 di mattina, nelle città marocchine, riecheggia il richiamo alla preghiera, che si ripete circa ogni ora e viene amplificato dagli altoparlanti. Non immagini la potenza e l'insistenza di questa voce -che in un certo senso sta cantando ma molto lamentosamente- specialmente se ti trovi a dormire all'aperto non distante da una moschea. A chiudere il quadretto sinfonico, pure i cagnolini di fianco a noi si mettono ad abbaiare e a litigare fra loro. Uno riesce perfino a scappare dalla gabbia e saltare sopra al sacco a pelo di MadMax. Da quella notte, decidiamo che possiamo rinunciare all'idea di "dormire sui tetti del Marocco", o per lo meno iniziamo ad apprezzare maggiormente gli ostelli.
Tangeri e l'oceano

Postazione letto su un tetto di Tangeri
Il proseguimento del viaggio è una discesa nemmeno molto graduale verso i climi e i paesaggi subsahariani. Infatti, già arrivati a Fes, la temperatura si assesta sui 40° e la vegetazione stenta a crescere. Ma prima di dirigerci lì optiamo per due deviazioni. La prima verso l'oceano a sud di Tangeri, per vedere i graffiti e le spiagge di Asilah. Sebbene constatiamo l'esistenza di entrambi, vicissitudini con la popolazione locale e una nebbia da pianura padana complicano le nostre semplici intenzioni. Così che ci ritroviamo sul taxi scassato e abusivo del ritorno a mani abbastanza vuote. Tutti ma non MadMax...

Atti osceni ad Asilah
La seconda deviazione è invece verso le montagne dove si trova la città blu di Chefchauen. Capitale turistica del nord e, come appuriamo in breve tempo giudicando dalle offerte che riceviamo, capitale marocchina della coltivazione di hashish. La posizione, i colori e "l'atmosfera" che caratterizzano Chefchauen la rendono appetibile a molti backpackers e viaggiatori, che affollano anche il nostro ostello. In particolare Vacca stringe amicizia con un argentino 50enne plus. Dettoci di essere un famoso scrittore proviamo a cercarlo su google, ma l'unico risultato relativo al suo nome è un truffatore scappato per non pagare le tasse. Incontriamo di sfuggita anche qualche altro soggetto interessante ma ci manca il tempo per approfondire queste conoscenze. Abbiamo una lunga strada davanti a noi e quindi ci fermiamo soltanto una notte. Prima di arrivare a Marrakesh, vogliamo fare sosta anche a Fes, Meknes e Rabat.

Chefchauen, la città blu, vista dalle montagne circostanti
L'arrivo a Fes, la sera seguente in bus, è uno shock. Dopo le strade devastate per arrivare, un manto liscio annuncia la città. Sollevando lo sguardo non si riconosce più il Marocco, ma sembra di stare in qualche nuovo quartiere di Milano. Alla sera le strade sono vuote e larghissime, qualcosa di inaspettato e spettrale. Ma poi tutto torna. Questa non è la vera Fes, bensì "Nuova Fes". Sede degli uffici e dei benestanti. Per arrivare a Fes vecchia occorre prendere un taxi e farsi accompagnare a una delle porte d'ingresso della città. Così facciamo e ci avventuriamo nella medina alla ricerca del nostro ostello. La ricerca si rivela difficile dato che Google Maps si ritrova solo una volta su 10 fra i meandri di Fes, mentre per le restanti 9 il puntino blu della nostra posizione vaga nel vuoto o fra strade che non esistono. Arriviamo a destinazione seguendo un gruppetto di bimbi di strada, che in cambio vogliono qualche dirham. Di Fes dicono che sia la città più rappresentativa ma anche più pericolosa del Marocco. Girando prima di giorno, fra le zone povere intorno alle concerie e verso il "castello" sulla collina di fronte alla città, e poi alla sera, mi rendo conto che c'è del vero in quell'affermazione. Eppure è solo una sensazione, perché in realtà non ci capita nulla di pericoloso o di spiacevole. L'unica cosa è che ci viene negato l'ingresso a ogni moschea e perfino alle strade adiacenti alle moschee dove ci rechiamo. "Gli occidentali non sono benvenuti in moschea e non sono ammessi in questa parte della città durante le ore di preghiera" ci viene ripetuto. Fino all'ultimo non capiamo se è una vera e propria regola, ma ci adeguiamo ad essa. Comunque ci sono altre cose da fare, principalmente camminare. Un pomeriggio incontriamo due tedesche, con cui condividiamo la nostra unica birra marocchina (l'alcohol è vietato dal codice mussulmano e quasi introvabile in Marocco). Ce la beviamo nel terrazzo con piscina di un hotel affacciato dalla parte sbagliata per il tramonto, ma la gratificazione è grande lo stesso.

Una delle porte della medina di Fes
Conceria a Fes. Filtro: lente d'occhiale da sole di Vacca
Meknes e Rabat non ci lasciano entusiasti. Entrambe centri politici, l'una oggi e l'altra in passato, ma poco vive e non così interessanti da vedere. Eccetto alcune eccezioni: la città romana, la "Pompei" del Marocco, a pochi chilometri da Meknes; la città alta di Rabat, affacciata sul porto dove si trovavano le locande frequentate dai pirati e malfattori di Salè; le rovine di Chellah, luogo sacro ora abitato soltanto da cicogne e giardinieri. Ci muoviamo in fretta, approfittando dell'unica tratta ferroviaria del paese Rabat-Casablanca-Marrakesh.

Chellah (Rabat)
Meknès antica

Sceso dal treno, in taxi verso un hotel, Marrakesh e il suo traffico mi spaventano. E' quasi notte, ma la città non dorme e tutti sembrano essere per strada diretti da qualche parte. Mi guardo intorno mentre l'autista improvvisa una sosta presso una solitaria pompa della benzina nel mezzo dell'arteria stradale verso il centro. Moto, pedoni, animali, carretti... Potrebbe essere India, ma invece è Marocco.
La medina è chiusa al traffico, le strade sono troppo strette, ma le moto girano lo stesso. Una piazza gigantesca chiamata Jamaa-El-Fnaa è il punto di incontro della città. Storicamente piazza del mercato, oggi piazza del turismo e pertanto affollata di bancarelle, taxi parcheggiati, musicisti berberi e addomesticatori di serpenti. Ci si può trovare di tutto in piazza Jamaa-El-Fnaa. Di tutto tranne che un po' di tranquillità. Per trovare quella bisogna cercare altrove. Una zona tranquilla, seppur centrale, è quella intorno al Palazzo Bahia. Un'altra è nei pressi della vecchia moschea di Ibn Yusuf.  Altrimenti, fuori dalla città in direzione delle montagne.

Strada nei dintorni della moschea di Ibn Yusuf
Palace de la Bahia (Marrakesh)
I Monti Atlas, con le vette più alte del Nord Africa, non sono lontani. Separano Marrakesh dalla regione desertica a confine con l'Algeria e sono abitate dai berberi, originari abitanti del Marocco prima della sua islamizzazione. Villaggi di argilla mimetizzati a cavallo delle ripide scarpate e dei terrazzamenti coltivati. Fitti boschi mediterranei alternati a enormi valli pietrose. E  alla fine del paese, in prossimità di Ouarzazate e del confine algerino, la sabbia. Prima sospesa per aria, portata dal vento, e poi man mano depositata su ogni superficie, sulle ultime case e sugli ultimi cactus prima del deserto. Anche se a dire il vero la maggioranza dei deserti del Marocco non è sabbiosa, ma "pietrosa". Deserti diversi da come ce li immaginiamo. Accomunati soltanto dal sole e dalla mancanza d'acqua, ma più simili a Canyon e valli di polvere rossiccia. Ma noi optiamo per la sabbia. Un furgoncino da 9 persone guidato da Mohamed, smilzo sessantenne di poche parole seppur allegro, ci porta ai confini del paese in circa due giorni di viaggio. Il cielo stellato sopra il tetto dell'albergo di montagna dove ci fermiamo resta forse il ricordo più emozionate. Un cielo notturno di tale nitidezza non l'ho mai visto prima, e non sarà lo stesso nemmeno la sera dopo dall'oasi nel deserto. Non so se sia la sabbia portata dal vento, le nuvole sopra di noi o soltanto la presenza degli altri turisti convogliati all'oasi, ma quando ci stendiamo a guardare in su...la magia è finita. Le stelle non brillano e il sole dell'alba è pallido e incolore. Prima di poterci accorgere di essere nel deserto del Sahara, ci dicono che è ora di uscirne, o poi farà troppo caldo. Così risaliamo in groppa ai dromedari e ci ri-incamminiamo, nuovamente diretti verso Marrakesh.

Oasi ricavata grazie alla raccolta di acqua piovana 
Dromedari in attesa presso l'ultima città prima del deserto (Merzouga)
In città fa parecchio caldo. Un pomeriggio mi sento la febbre e il mal di testa, e vorrei trovare un angolo di verde dove stendermi un po', ma non è possibile. Invece capitiamo in quella che sembra essere la zona più povera di Marrakesh, intorno a Bab Debbagh. Percorriamo la via dove sono rimaste le ultime concerie della città. Una lunga strada sporca e puzzolente. Tutti stanno in strada o "in negozio", vendendo ogni genere di cose per pochi cent. Come i ghiaccioli scaduti che accettiamo di comprare. Alcuni hanno brutte facce e aspettano agli angoli come spacciatori. Ma poco più avanti scorgo un murales colorato che dà tutto un altro tono alla via. Risalendo verso il centro la via prende le sembianze della medina e si confonde con le altre strade. 

Murales a Marrakesh
Di ritorno dal deserto siamo divisi dal dubbio: possiamo vedere un po' più montagne, tentando la scalata del monte Toubkal, o fare un ultimo saluto all'oceano. Optiamo per l'oceano e ci dirigiamo verso Essaouira. Ci arriviamo con un taxi scassato, che ci scarica all'ingresso della porta principale della città. Il cambiamento di atmosfera e di temperatura è immediato. Non lo vediamo, ma non c'è dubbio che siamo sul mare. Entriamo nella medina, che è piccolina ma molto bella. Lasciamo gli zaini e torniamo subito indietro, perché abbiamo notato un posto dove mangiare dentro il mercato del pesce. Funziona così: prima fai un giro per le bancarelle e ti scegli il pesce che vuoi mangiare, poi quelli del ristorante te lo puliscono e te lo grigliano praticamente in faccia. Il tavolo dove ci fanno accomodare infatti è affacciato tramite una finestra-ingresso sulle griglie. Un fumo e un profumo pazzesco. 
Altra zona interessante della città è il porto, dove inizia un altro mercato e dove si respira di nuovo aria intrisa di pesce. Oltre al pesce, si respirano anni e anni di storia. E' ben conservata Essaouira, con i suoi torrioni, muraglioni e carruggi scuri. L'unico problema è il vento. Il nostro programma di imparare a surfare non può concretizzarsi, non ce le danno le tavole. Nessuno si azzarda a nuotare con quelle onde. Optiamo per una camminata sulla spiaggia, che si rivela un'impresa disperata. Mai fatto così tanta fatica a camminare.

Porto di Essaouira (sopra e sotto)

Dopo la seconda notte torniamo a Marrakesh. Rimaniamo in città un paio di giorni, fino a che non è ora di tornare. L'aeroporto Menara di Marrakesh è un blocco di cemento di quelli che ti aspetti di trovare a Dubai. L'entrata moderna e gli interni lussuosi stonano con l'immagine decadente che ci siamo costruiti nelle 3 settimane trascorse. Ci prendono le impronte digitali e ci timbrano il visto d'uscita. Davanti a noi resta solo un'ultima notte a Madrid, prima del volo per Bologna nel primo pomeriggio. Decidiamo di non prenotare un letto, ma di passare la notte in giro. Iniziamo da El Tigro, dove ordinare un cocktail o una birra include un vassoio di tapas e stuzzichini. I vasi di Mojito che ci portano quella sera sono una manna dal cielo dopo le 3 settimane mussulmane (e quindi semi-astemie) che abbiamo passato. Il guerriero Mad Max ha una febbre da cavallo ma non si rassegna a cercarsi un ostello dove risanare e ci segue con passo trasandato. D'altronde è l'ultima sera dell'intero viaggio, come potrebbe? Passiamo da Plaza Mayor e da Puerta del Sol, ma non c'è molta gente in giro. Finiamo in un altro locale a bere, ma a un certo punto ci dicono che sono in chiusura. E' così che iniziamo a cercare un prato dove sdraiarci. E' calata la notte e fa freddo. Troviamo un posticino nella zona del palazzo reale ma io non riesco a dormire per più di una o due ore. Mi sveglio alle prime luci del mattino e approfitto per fare un ultimo giro. La città si sta svegliando, con i joggers mattinieri e i lavoratori che fanno pausa caffè prima di entrare in metro. Provo una sensazione rassicurante a essere di nuovo in Europa. Poi ordino dei churros che mi lasciano un po' deluso, e mi incammino per raggiungere nuovamente gli altri. Arrivo in tempo per godermi la scena degli spruzzini di irrigazione che innaffiano i miei compagni di viaggio, strappandoli da chissà quali sogni. In qualche ora siamo seduti sull'aereo di ritorno. Seguo i profili della costa e le creste delle montagne, finché non perdo l'orientamento. Ogni pianura mi sembra già Bologna, ma ci vuole molto di più ad arrivare. E' la magia del nostro pianeta e della geografia.

Ultima notte a Madrid