mercoledì 3 agosto 2016

Altro Salento

Arrivo in Puglia un pomeriggio di fine luglio, dopo una partenza prima dell’alba e oltre 10 ore di dormiveglia in macchina. Sono con tutta la famiglia, per quella che potrebbe essere l’ultima vacanza tutti insieme (a settembre me ne andrò a vivere all’estero e chissà quando ritornerò…ma di questa storia parlerò più avanti). 

La nostra base è una villetta squadrata nelle campagne circostanti Santa Maria di Leuca, il punto più a sud del tacco d’Italia (dove Mar Ionio e Mar Adriatico confluiscono). Il mare è a una decina di km in linea d’aria, ma non lo scorgo all’orizzonte nemmeno salendo sul tetto. Da quassù l’unica cosa che si vede sono gli ulivi: infinite distese di alberi perimetrate da muretti di sasso. Un pomeriggio, in cerca di un po’ di calma e di solitudine, decido di inoltrarmici a piedi. Una dopo l’altra, imbocco queste strette strade di campagna (in gran parte asfaltate) e ben presto non so più dove mi trovo. Tanto più che a un certo punto sento della musica e comincio a inseguirla. Si tratta inizialmente di percussioni alternate a un mandolino o a qualche strumento della tradizione pugliese. Pare che qualcuno lì vicino stia provando. Poi però il sound si fa più moderno ed elettronico, e sembra arrivare veramente da un punto vicino. Mi chiedo se in mezzo a questi campi di ulivi non ci sia una qualche casetta riconvertita a centro giovanile o discoteca. Sono molto incuriosito, ma nel frattempo il sole inizia a calare e si accresce in me anche un senso di angoscia. Non conosco queste strade e ovviamente non ho portato il cellulare con me… Alla fine arrivo in un punto più aperto, che affaccia sulla pianura sottostante. Capisco che la musica arriva semplicemente dal paese vicino, dove evidentemente ci sarà un concerto all’aperto. Al che torno sui miei passi per un breve tratto e - un po’ grazie all’intuito, un po’ per fortuna- riesco a tornare a casa abbastanza velocemente.


Il Salento, come tanti posti del Sud Italia, è questo: una terra capace di attirarti con le sue bellezze, rapirti nella vastità delle sue distese e puntualmente deluderti (magari presentandoti un cumulo di detriti e spazzatura all’entrata della più bella spiaggia che tu possa immaginare). Le etimologie del nome Salento conducono tutte alla presenza del mare, con ogni probabilità l’elemento ancora oggi più importante per questa terra. Da alcune decine di anni, migliaia e migliaia di turisti arrivano infatti ogni estate da tutta Italia per goderselo. Si affollano così le spiagge e i borghi più noti (Lecce, Gallipoli, Ostuni, Polignano a Mare ecc). Venditori ambulanti e strutture ricettive fanno così la loro fortuna. Sembrano tutti felici e contenti in questo modo, ma in realtà il Salento comprende anche molto altro che, invece, rimane nell’ombra. Lo si trova nelle campagne e nei paesi dell’entroterra. Nelle cucine e nelle tradizioni folkloristiche. Nei circoli mandolinistici e nelle chiese. Ma come si fa a scoprirlo?


Ancora una volta, il modo migliore è conoscere qualcuno del posto che ti porti in giro. Nel mio caso questo qualcuno si chiama Giuseppe, il fidanzato della mia vicina di casa (nonché cugina aquisita) di Bologna. Io e mio fratello siamo loro ospiti per un paio di giorni. Siamo nell’Alto Salento, a non molti km da Ostuni. Lì ci dirigiamo per la serata, non prima però di una giornata di mare presso la spiaggia di S.Pietro in Bevagna (nella costa ionica) e di un piatto fumante di spaghetti al sugo di pomodoro e fagiolini lunghi. Andiamo ad Ostuni per via di un festival di musiche del mondo, pur consapevoli della quantità di turisti con cui dovremo fare i conti. In effetti “la città bianca” –dove avevamo fatto pausa pranzo all’andata- è quasi irriconoscibile. Essendo così affollate, le piazze e le viuzze assumono un aspetto del tutto nuovo! Rimasti fra gli ultimi spettatori di un concerto di musica messicana iniziato all’una e un quarto di notte, decidiamo che possiamo essere soddisfatti della serata e ce ne torniamo a casa. La mattina seguente, decidiamo di rimanere in zona per la giornata e ci facciamo guidare per il paese e i dintorni. Sebbene le zone costiere possano apparire in tutto e per tutto simili a quelle del Basso Salento, basta allontanarsi un poco verso l’entroterra per notare come le infinite distese di uliveti del Basso Salento lascino il posto talvolta a distese aride e semidesertiche (interrotte soltanto da qualche albero, grotte e cave di tufo o da antiche masserie), talvolta a coltivazioni intensive di pomodori o altri ortaggi. Mentre la vecchia panda di Giuseppe imbocca strade sterrate ed evita buche, mi accorgo di quanto sia essenziale il sole caldo e la luce accecante per queste terre del sud.


Il paese di Giuseppe ha in realtà 20 mila abitanti e si chiama San Vito dei Normanni. Come tutti i paesi salentini che ho visto finora, il centro storico è contenuto ma è molto carino. Un antico castello orientaleggiante e un po’ decadente si affaccia sulla piazza principale, come anche il circolo mandolinistico, una chiesa e un bar coi tavoli all’aperto. Le chiese, sfarzosamente barocche e un po’ fatiscenti, definiscono la parte storica di S.Vito. Forse in questo periodo, forse a quest’orario o forse tutto l’anno, per le strade non si incontra quasi nessuno. Gli unici posti affollati (di soli uomini però) sono i bar. Ce n’è uno in particolare che è molto caratteristico: si trova al piano terra dell’edificio che ospitava il cinema storico del paese, ora non più in funzione perché non a passo coi tempi della tecnologia. L’insegna del vecchio cinema però sovrasta la piazza, che è in realtà un parcheggio ai margini del centro storico. Tutto intorno ai tavolini, dove si tengono fitte conversazioni nella penombra degli ombrelloni, sono ferme tantissime auto e pure un trattore. Quando passiamo noi, ho l’impressione che tutti ci fissino e guardino che cosa facciamo. Dopodiché, oltrepassato il bar e usciti dal centro, è il nulla più totale. Le strade perpendicolari e gli edifici tutti uguali (cubici e a due piani) che stanno ai lati, rendono questi luoghi tristemente prevedibili e desolanti. (Ricordo, a proposito, il senso di gratitudine che può dare anche solo la presenza di una piccola cappella con la Madonna: un goccio di tradizione nel mare di cemento della periferia). Di edicole o attività commerciali di qualsiasi tipo neanche l’ombra. Solo abitazioni, tutte provviste delle tipiche “rezze”, tapparelle in legno utili a mantenere il fresco nelle case e, come mi viene riferito, “a osservare fuori senza essere visti”. Nel pomeriggio usciamo dal paese, verso le campagne. A bordo della panda, mentre Anna ripercorre per noi le affascinanti storie dei suoi antenati, raggiungiamo il famoso campo di ulivi secolari appena fuori. Di lì ci inoltriamo ancora di più per le campagne, iniziando a percorrere strade bianche. Siamo alla ricerca di posti abbandonati. Raggiungiamo una vecchia grotta, nei pressi dei quali è stato costruito un grande muro a recintare quella che è una delle poche masserie ancora "in uso". Lo testimoniano le galline e alcuni panni stesi al sole. Ma è la desolazione più totale, e non ci dispiace molto che l'ingresso sia sbarrato. Nella nostra ricerca raggiungiamo diverse case cubiche costruite alcuni decenni fa dallo Stato e oggi frequentate in gran parte soltanto da gruppi di cani randagi, che ci accolgono con l'affetto di chi vuole giocare (e magari anche qualcosa da mangiare). Ci fermiamo a raccogliere i chili di fichi che pesano sui rami degli alberi. Mamma che dolci... Infine proseguiamo verso la masseria più bella, abbandonata da chissà quanto. E' pieno pomeriggio e non c'è una nuvola in cielo. Mentre camminiamo verso la corte diroccata, sento tutto il calore del sole sotto alle mie infradito. Oltrepassato l'arco di ingresso, mentre attraverso il semi-buio di uno dei grandi saloni, ho l'impressione di trovarmi nel libro di Ammaniti "io non ho paura". La masseria è abitata da piccioni e non ha vetri alle finestre. Ci sono scritte nere sui muri e un po' di sporcizia per terra, ma questi sono gli unici segni dell'arrivo della modernità. Una antica sacralità impregna ancora le stanze dei latifondisti di un tempo, le cui lastre dei pavimenti sono state tutte rubate. Raggiunta la riserva di Torre Guaceto, ci tuffiamo nell’Adriatico. La spiaggia è affollatissima, ma il mare è qualcosa di incredibile.  Le ultime ore insieme le passiamo rifocillandoci all'ombra di un chioschetto nei pressi di una stazione. Dopodiché il trenino per Lecce, dove ci aspettano i miei, arriva puntuale. La solita voce dell’altoparlante di Trenitalia è confortante e anche i 50 minuti di tragitto che ci separano dalla città scorrono in fretta, senza che il controllore abbia il tempo (o la voglia) di controllarci il biglietto. E' il tramonto, e sono felice di condividere questo piccolo tratto con mio fratello.


Lecce è stupenda. Luci calde, roventi pavimenti ciottolati e tanta storia accumulata in ogni angolo ci accolgono con un abbraccio mediterraneo e seducente. E’ sera ed è bellissimo camminare per le sue vie, nemmeno troppo affollate a dire il vero. Tutta la zona fra il duomo e la piazza con l’anfiteatro romano (riportato alla luce meno di un secolo fa) è degna del soprannome che è stato dato alla città: la Firenze del Sud. A pochi km dal mare, di respiro cittadino e non solo città turistica, Lecce è uno di quei posti dove vorresti tornare  ed esplorare più a fondo. Ci fermiamo a ri-mangiare, dopodiché continuiamo ancora un po' questa insolita e felice passeggiata di famiglia.


Gli ultimi giorni sono un ritorno alla “normalità” della vacanza, con la routine e ritmi lenti della famiglia al mare. Giochi di società e sport da spiaggia di ogni tipo animano le giornate, così come la caccia ai pokemon animano le uscite serali nei paesi vicini. La serata che però voglio riordare è quella passata a Specchia, paesino di 5mila abitanti non lontano da Presicce e ,di conseguenza, da Leuca. Arriviamo dopocena, non troppo fiduciosi nei confronti di un manifesto attestante "concerto di pizzica in piazza" per quella sera. E invece ci basta aprire lo sportello della macchina per capire che il concerto c’è, eccome se c’è!! La piazza, con il palco e tutta la gente attorno a ballare, è uno spettacolo. Lo sarebbe già di suo, grazie alla chiesa e ai palazzi eleganti che la adornano tutta, ma con questa atmosfera è veramente un posto magico. Un gruppo di musicisti cantano in dialetto e suonano per il pubblico. C’è un fisarmonicista, un chitarrista, un tamburelliere e due cantanti (uno uomo e una donna). Per tutta sera alternano pezzi della tradizione pugliese a tarantelle e valzer riadattati in chiave salentina. I miei, mia mamma in particolare, ballano come matti. A un certo punto però, i ballerini si fanno da parte e ricavano lo spazio per la “tarantolata”. Una ragazza viene portata in braccio e deposta sul lenzuolo bianco che è stato steso al centro della piazza. Sotto i colpi percossi dal tambrelliere, la ragazza inizia a riprendere i sensi e a risvegliare le membra del suo corpo. Per un tempo indefinito gli sguardi di tutti sono ammaliati dalla creatura bruna avvolta nel lenzuolo bianco. Il ritmo del tamburo scandisce il suo nome ad alta voce: si chiama "Puglia" e ci ha tutti stregati!


lunedì 4 luglio 2016

Sulla Via degli dei

IL VIDEO!

16-19 giugno 2016: 4 giorni di cammino per percorrere i 100 km che separano Bologna da Firenze e che costituisccono la famosa "Via degli Dei". (In realtà -sarà forse il periodo- di altri camminatori lungo la via ne incontriamo ben pochi!). Video ideato e realizzato dal mio amico Leo, godetevelo tutto!
 


                



IL RACCONTO

Ore 06.30, giovedì. Nonostante l'ora presto il sole è già alto e la nostra avventura sta per iniziare. La macchina -già piccola di suo- è stipata dai nostri zainoni. Io li guardo dubbioso, so che dovremo portaceli in spalla e che non sarà facile. Arrivati in stazione facciamo un'ultima selezione delle cose di cui possiamo fare a meno, ma non riusciamo a cavare fuori quasi nulla..."vabè, partiremo così!" A dispetto dell'itinerario tradizionale -che vedrebbe la partenza da Piazza Maggiore a Bologna e l'arrivo a Firenze in 5 giorni- noi decidiamo di partire da Sasso Marconi, in modo da tagliare qualche ora di cammino e provare a raggiungere Firenze con un giorno d'anticipo (entro domenica sera).

Arriviamo a Sasso in un batter d'occhio e, per prima cosa, ci avviamo verso il centro per prendere un "caffè di incoraggiamento" (Jonathan è seriamente spaventato dall'idea di rimanere senza caffè nei giorni a seguire, ed ha pure minacciato di portarsi un fornellino da campeggio con tanto di bombola del gas). Incontriamo un abitante chiaccherone, appassionato di caccia e di ricerca dei funghi, che ci dà qualche dritta sul percorso migliore da intraprendere per il primo tratto. (In realtà, senza farlo apposta, seguiremo l'alternativa meno bella (e meno ripida) di quella consigliataci.)

Dopo un primio tratto su strada asfaltata, inizia la salita fra i boschi del Contraforte Pliocenico. Si fa il grosso del dislivello in pochi chilometri -seguendo un sentiero che viene utilizzato anche dalle mountain bike- e si arriva a questo spiazzo molto bello (con tanto di spazio griglia). Lì la tentazione di considerarsi già abbastanza soddisfatti, stendersi sull'erba per un po' e poi magari far dietro front è facile che arrivi. In fondo il San Luca è ancora così nitido e a portata di mano...
Però desistiamo da questi pensieri e tiriamo dritto. Due signori ci danno indicazioni e ci incoraggiano, dicendo che "tre giovani come noi possono arrivare ben oltre Monzuno e raggiungere anche Madonna dei Fornelli in giornata" (erano le 11 passate). Dopo sei ore, trascorse a cercare di lasciarci indietro (invano) la collina su cui sorge la chiesa di S.Luca, siamo ancora ben distanti da Monzuno. Il monte Adone -diventato ben presto Monte Metadone (in seguito anche alla dislessia travolgente post traumatica e post affaticamento che ha caratterizzato i quattro giorni)- e gli zainoni sulle spalle, ci hanno veramente sfinito. Siamo costretti a fermarci abbastanza spesso per riprenderci un po' dal peso e dal caldo. Il tratto che segue la salita al Monte Metadone (un sentiero sassoso che poi cede il passo a una strada non trafficata ma davvero rovente) sembra non finire mai. Così dopo qualche altra ora, quando vediamo Monzuno nemmeno troppo in lontananza ma notiamo un autobus e una rispettiva fermata nelle immediate vicinanze, ovviamente non disdegnamo uno strappo (che ci viene gentilmente offerto dall'autista).




Arrivati in paese a Monzuno, un po' preoccupati per qualche problema tecnico alle scarpe (mie e di Jonathan) e per la ricerca di un posto dove dormire, ci capita il miracolo. La voce incredula di Jonathan, allontanatosi momentaneamente da noi per cercare un negozio di scarpe, riecheggia per le strade di Monzuno e arriva fino a noi col suo accento marchigiano: "Madonna mia! Madonna mia!!! Hahahaha Madonna!". Dopo poco eccolo arrivare di corsa, annunciandoci di avere incontrato "amici". Sono amici di suo fratello maggiore in realtà, appena traferitisi lì da Bologna. "CI OSPITANO LORO, TRANQUILLI RAGAZZI!". In effetti eccoli arrivare dopo pochi minuti! Sono una coppia di ragazzi poco più grandi di noi (beh forse un po' più grandi sì, ma non saprei dire quanto). Carichiamo tutto in macchina e accettiamo la proposta di una signora del posto, che ci invita a fermarci alla sagra di non so che...dove servono tigelle, hot dog e crescentine fritte. Ci ingozziamo come matti, pensando che si tratti della cena. In realtà, quando arriviamo a casa, Miguel si mette a cucinare. Mentre si parla e si rattoppano un po' gli stivali, viene preparata una pasta alle patate da fuori di testa. Il profumo ci riapre lo stomaco e mangiamo di gusto anche quella. E dopo cena, è un vero piacere stare seduti all'aria di montagna in compagnia e con la pancia piena. Ci andata davvero bene! Anche perchè in questo modo dormiremo su dei letti veri e non in tenda. Non solo, al nostro risveglio ci aspetta una colazione super e un passaggio in macchina fino all'imbocco del sentiero. Non sappiamo come ringraziare: ora abbiamo il corpo e gli stivali risanati e una giornata di sole davanti. Ci abbracciamo calorosamente e ci incamminiamo di buon passo.


Quel giorno (venerdi) diamo una svolta al nostro cammino, arrivando a Madonna dei Fornelli per l'ora di pranzo (dove però dobbiamo fermarci ben oltre a causa di altri problemi tecnici) e raggiungendo il Passo della Futa per cena. Il tratto di strada è abbastanza impegnativo ma molto bello. Inoltre la maggioranza di esso è sentiero di bosco (ricalcando in parte quella che era
l'antica Via Flaminia, costruita e lastricata dai romani per fini militari e in certi tratti recuperata attraverso uno studio archeologico) e il caldo si fa sentire molto meno del giorno precedente. Svalicato il confine tosco-emiliano e arrivati alla Futa, ci sistemiamo con le tende in un campeggio. Approfittiamo anche per prenderci una pizza e concederci un po' degli Europei che si stanno giocando.



La mattina dopo, sabato, ci svegliamo presto e un po' acciaccati dall'umidità e dal fresco "d'alta quota" (circa 1000 metri). Ma proprio per questo la doccia calda è una vera goduria rigenerante. Così come è anche la colazione al bar del campeggio, dove approfittiamo per fare un po' di mente locale sul resto della strada mancante. Ci rimettiamo in cammino, facendo però una breve tappa al curioso cimitero dei soldati tedeschi (decine di migliaia) caduti durante la seconda guerra mondiale nell'Italia settentrionale (voluto e getito tuttora dal governo tedesco, ma situato nel cuore della nostra penisola). Manteniamo il passo e raggiungiamo S. Agata nel tardo pomeriggio. Ci fermiamo a contemplare la chiesa e la placida vita di paese (per altro molto carino) per un'oretta, ma poi -ingannati da un vecchio mugnaio mezzo sordo sui tempi di percorrenza- decidiamo di provare a fare il colpaccio e cercare di raggiungere S.Piero a Sieve. A detta del vecchietto ci separava soltanto un'oretta di strada, ma invece (non è ben chiaro per quale motivo) impieghiamo circa tre ore estenuanti per arrivare. Il sole è già calato da un pezzo e i piedi sono al limite della sopportazione quando raggiungiamo roccambolescamente il campeggio "Mugello verde". Senza più forze (nemmeno di spostarci dal punto in cui abbiamo piantato la tenda), consumiamo con piacere la quasi totalità delle provviste e della spesa fatta a S.Agata. Dopodiché il sonno piomba quasi immediatamente su ognuno di noi, e abbiamo giusto il tempo di lavarci i denti al bagno vicino e trascinarci verso i nostri sacchi a pelo.

Domenica, ci accoglie al nostro risveglio un cielo grigio e notizie di pioggia imminente. Reduci anche dalle fatiche del giorno prima, decidiamo di comune accordo che non dobbiamo dimostrare proprio nulla a nessuno (a eccezione della mamma di Leo, che non dovrà leggere questo articolo e dovrà continuare a pensare che abbiamo raggiunto Firenze completamente a piedi in 4 giorni) e che possiamo benissimo farci l'ultimo pezzo in treno. D'altronde -anche nell'itinerario tradizionale- l'ultimo tratto di strada è il più lungo (11.30 h di cammino) ed è percorribile coi mezzi soltanto partendo da S.Piero o da Fiesole, che rischiamo di non riuscire a raggiungere messi come siamo messi. Così smontiamo tutto con calma e ci dirigiamo verso la stazione, dove puntualmente perdiamo il primo treno utile e aspettiamo il successivo (concedendoci una seconda colazione al bar vicino). Così alle 11.30 di mattino, arriviamo "belli riposati" e asciutti in stazione a Firenze (dove ci lasciamo indietro pure 2 zaini su 3). La pioggia arriva ma in modo molto meno drammatico di quanto preannunciato. Comunque sia, il nostro giro per ill centro di Firenze -dopo giorni di soli alberi e montagne- è un tuffo improvviso, ma piacevole, nella civiltà. Che impressione farsi largo tra la folla di turisti (incappucciati sotto i ponchi colorati) per attraversare il Ponte Vecchio! Alle 17 e qualcosa, montiamo di nuovo sul treno e ripercorriamo alcuni dei monti e delle valli che ci siamo fatti a piedi. Osserviamo questi luoghi e questi nomi, ora familiari, da un nuovo punto di vista. Una volta ancora, come quando guardavamo le valli intorno a noi dalla cima dei sentieri d'alta quota e ci stupivamo del cambio di prospettiva, i nostri occhi vedono diversamente i luoghi di questo territorio e percepiamo diversamente le distanze che lo costituiscono. (Ok... in realtà il viaggio di ritorno è stato corredato anche da diversi sonnellini e momenti di "abbiocco", però -almeno per me- è stato anche tutto questo). Infatti penso proprio che, come diceva o scriveva qualcuno di importante, camminare sia qualcosa di profondamente istruttivo. A livello storico-geografico ma anche e soprattutto personale.



Durante il cammino è scattata la diatriba sulla questione: "Ma anche farlo da soli quanto sarebbe bello questo cammino?". Beh io resto dell'idea che sia andato come è andato (benissimo) proprio perchè eravamo noi 3. Una squadra ben assortita: con Leo che fa video e si porta dietro la sua farmacia ambulante, Jonny che dice cazzate e fa valere il suo "praticismo scout" e io che non faccio niente (cammino, e pure lento). E poi certo, il culo fa. Che fa tanto. Però se posso dare un consiglio a chi vuole partire per la Via Degli Dei: non fatelo ad agosto, ma a giugno magari, anche se è fuori stagione (e chi deve intendere intenda =D).




giovedì 5 maggio 2016

Interrail nord-Europa

I NUMERI

12 nazioni attraversate
21 città “visitate”
80 ore di treno
23 ore di nave
85 euro di taxi
43 amici incontrati (23 vecchie   conoscenze e 20 nuovi incontri)
8 lingue diverse ascoltate
5 tipi di moneta usati
12 ostelli diversi
2 cappelli persi
3 lavatrici
ca 500 foto scattate (un record personale)
ca 20 colpi di fulmine (al giorno)
1 libro letto
15/300 pagine studiate
ca 30 sandwich mangiati (fatti o comprati)
2 kebab
12 giga di nuova musica ascoltati
1 e ½ film guardati
3 secondi cugini conosciuti
5 musei visitati (di cui 3 gratuiti)
2 hiking in Scozia e 2 biciclettate
1 barca a remi noleggiata





LE TAPPE


La notte prima della partenza non dormo, non ci provo neanche, perché ho ancora troppe cose da sbrigare e comunque non credo che ci riuscirei. Sebbene voglia lasciarmi il più libero possibile (non prenoto nessuna notte in ostello eccetto la prima, né traghetti o treni che richiedono prenotazione), ho mille cose a cui pensare contemporaneamente (quali vestiti, libri e gadget da mettere in valigia, che musica mettere nell'ipod, fotocopiare documenti, mettere tutto in carica, guardare google maps e tutte le possibili coincidenze ecc ecc). Mi agito come una trottola su e giù per la casa e il tempo scorre velocissimo. Alla fine decido che sono pronto, devo andare. Parto prestissimo (non è ancora l'alba), perché il treno che voglio prendere è prestissimo! Quando salgo sul treno -un regionale diretto a Milano- tutta la tensione sparisce e mi abbandono sul sedile.



Pian piano mi lascio indietro tutti i nomi familiari, poi la pianura padana, l'Italia, la Svizzera e mi fermo solo a Lione. Sono le 4 del pomeriggio. Mi accoglie una città sotto la pioggia battente, di cui conosco soltanto l'indirizzo dell'ostello. Giro in tondo e senza azzardarmi a usare il mio francese nella zona dove dovrebbe essere la via che cerco, ma non la trovo. Passa un tempo che mi sembra interminabile e la pioggia e il peso dello zaino sulle spalle trasformano tutto questo in vera e propria disperazione. E' solo la forza di volontà che mi spinge a continuare a cercare e a imboccare nuove vie fino a campanarci qualcosa e capire dov'è che devo andare di preciso: la via dell'ostello si trova in cima alla collina soprastante, che io inconsciamente non avevo nemmeno considerato. Ci arrivo tutto sudato e bagnato di pioggia, “è il caso di farmi una doccia” penso. Sistematomi e messo qualcosa sotto i denti, vengo preso da un senso di solitudine e di timore per tutto quello che mi aspetta e che se ne sta là, ancora vago e immenso, ad aspettarmi. Inoltre devo ancora abituarmi alla logistica della situazione in cui mi trovo e continuo a perdere una cosa cosa dopo l'altra, per poi ritrovarle ogni volta in un angolo diverso delle borse che mi sono portato. Mi sento veramente di pessimo umore e l'unica cosa che mi resta da fare è di andare a dormire. Il giorno dopo, mercoledì, la pioggia se ne è andata e mi faccio un giro a piedi per la città. Lione è sterminata, è la seconda o terza città di Francia e si trova nel punto dove confluiscono il Rodano e la Senna. Il centro storico, compresa la collina dove ho dormito, mi piace molto. Il resto della città è invece abbastanza anonimo e molto geometrico. Mangio una baguette farcita con un ripieno di verdure e formaggio molto acido e decido che voglio andare subito a Parigi, dove ho diversi amici che mi aspettano.





I tre giorni giorni che passo a Parigi sono bellissimi. Sono ospite di  amici di famiglia, che mi riempiono di attenzioni e mi danno consigli sulla città. Sono contento di avere appuntamenti, orari da rispettare e indicazioni e sono contento anche di avere altri 2 amici, anche loro ormai “parigini doc”, con cui uscire la sera e farmi lunghe passeggiate in giro per la città. Dopo la terza notte decido però che è il momento di proseguire il viaggio e dirigermi verso l'Irlanda.




Arrivo a Dublino con un traghetto dall'Inghilterra, che riesco a raggiungere un po' in affanno e proprio all'ultimo secondo per via di un ritardo fra le decine di mezzi di trasporto che ho utilizzato per arrivare al porto: senza rendermene veramente conto (in dormiveglia), ho attraversato la manica in bus, Londra in metropolitana e mezza Inghilterra in treno (Holyhead si trova in Galles!). Vengo accolto dalla figlia di altri amici di famiglia e da un vento gelido, oltre che da una invisibile e fastidiosa pioggerella. Più che la città apprezzo le campagne circostanti, dove abbiamo modo di avventurarci il giorno seguente sotto la guida di un irlandese a dir poco bizzarro che organizza economici tour in giornata verso la zona di Kilkenny. Sono giorni in cui ho smania di macinare chilometri e inoltre voglio arrivare in tempo all'appuntamento che ho in Scozia di lì a pochi giorni con tre amici dell'università, casualmente là in vacanza. Quindi saluto e lascio Dublino dopo 2 giorni, senza essermi goduto veramente la scena notturna dei suoi pub.
Devo imbarcarmi il giorno seguente da Belfast, è già passata la prima settimana. Ci arrivo in treno e capito in un ostello gestito da 9 giovani, che mi raccontano e mi aprono le porte del loro del loro ostello-comunità, dove regna l'hippagine, il calcio sul proiettore, la birra e la musica a palla. In realtà non mi trovo molto a mio agio e dopo un po' mi ritiro da buon “ammazza-balotta” a dormire. La mattina ho tempo girarmi un po' il centro (che non è niente di che) ma non i quartieri di periferia dove sono avvenuti gli scontri negli anni '80 - '90  e che, come a Berlino, sono tappezzati di graffiti lungo il muro di separazione fra Irlanda e Irlanda del nord. In tarda mattinata mi imbarco per la Scozia e conosco una americana pazzoide (sprovvista di pantaloni lunghi), che è sopravvissuta un mese in Irlanda e ora è diretta verso il nord della Scozia.



L'incontro con i miei amici dell'università è bello e avviene in una piazza di Glasgow. Ci troviamo subito in sintonia e, sebbene avessi in programma di stare con loro soltanto una notte o due, finisco per accompagnarli fino al giorno della loro partenza per l'Italia ( 5 giorni dopo). Ci vediamo Glassgow ed Edinburgo (molto bella) e qualche angolo di nord verso il lago Loc Lomond, che costeggiamo per un tratto in una fangosa camminata fra i boschi e le pecore scozzesi. La cosa più bella in assoluto, però, sono i pub alla sera dove suonano musica irish intorno a un tavolo e dove ho modo di bere tutta la guinness che mi ero perso a Dublino. Quando arriva la domenica è l'ora di salutarci e, per me, di proseguire il viaggio verso il sud dell'Inghilterra.



Prima di arrivare a Londra, faccio tappa a York, che ho modo di osservare dall'alto delle mura medievali. Il centro della città è di quelli che piacciono a me, ma basta uscire dal cerchio delle mura che la città cambia completamente faccia. Arrivo a Londra in tempo per lasciare tutto in ostello e sedermi poi davanti a un apprezzatissimo piatto di taglioni al pesto a casa di Cesare, amico musicista che vive, studia e lavora nell'arco di 300 metri in quello che abbiamo definito il quartiere- villaggio di Fulham. Non a caso al tavolo sono seduti oltre a noi due e Robbi (altro amico scroccone in visita) anche altri invitati dell'ultimo minuto (tutti italiani e musicisti), di cui uno letteralmente invitato a suon di grida dalla finestra (ecco i vantaggi di studiare canto, per chi se lo chiedesse). La serata scorre in frettissima, tanto che riesco a tornare all'ostello solo roccambolescamente con una serie di last-for-the-nigh-metro e una lunga passeggiata notturna alla cieca, durante la quale ho però modo di vedere una fottuta volpe nel bel mezzo della città! Anche il giorno dopo cammino per conto mio e mi perdo instancabile fino a sera, quando prendo un treno per Harwich e mi imbarco alla volta dell'Olanda.




Sul traghetto per Rotterdam dormo come un neonato nella cabina che ho prenotato tutta per me. Sì, è un mese di nomadismo spinto, ma non voglio rinunciare a riposarmi come si deve e concedermi qualche piacere culinario. A costo di spendere un po' di più. Arrivato in terra Olandese –che ho già avuto occasione di esplorare in passato- mi dirigo subito verso un'università verso cui nutro progetti futuri. Dopo l'università, che effettivamente -anche a vedersi e a detta di alcuni studenti che incontro- si conferma un'eccellenza per mio campo di studi, raggiungo la città di Maastricht, un'isoletta di terra olandese circondata da Belgio e Germania. Lì ci studia ormai da 4 o 5 anni la Rebbi, mia amica e compaesana. Convive, anche se in modo un semi-clandestino, con il suo ragazzo olandese. La sera ci rilassiamo sul divano con una maratona di spy movies demenziali, la buona birra e soprattutto la buona erba olandese...e chi ce lo fa fare di uscire?! Unica pecca la musica a palla del bar di sotto che va avanti anche quando le nostre palpebre decidono per noi che è ora di dormire. La mattina del giorno dopo ci giriamo il piccolo centro in bici, facciamo una siesta al parco scaldati dal sole e ci beviamo le ultime birre in un bellissimo pub del centro, la cui attrazione principale è però il vecchio barista, il quale non transige sulla birra che berrai e non te la vende finché non gli dici qual'è il tuo “flavour” e non gliela lasci scegliere a lui. Uscito barcollante di lì, mi infilo su un treno alla volta del nord della Germania.


Arrivo a Colonia verso sera e in ostello conosco un coetaneo tedesco in cerca di lavoro e un inglese con cui condivido un kebab e l'unica passeggiata che faccio per la città (devastata dalla seconda guerra mondiale e ora molto moderna). La vera destinazione è infatti Bonn, che si trova mezzora più a sud e che è famosa soltanto per aver dato i natali a Beethoveen e per essere stata scelta dagli alleati come capitale della Germania ovest. Per qualche motivo questa piccola città mi ha sempre ispirato e -non so se per una sorta di effetto placebo o meno- anche dopo averla vista mi è piaciuta un sacco, penso che ci vivrei. E' una tipica città costruita lungo il Reno, con la sua cattedrale al centro della piazza del mercato, i palazzi storici, tanti viali alberati e spazi verdi e moltissime biciclette. Camminando per le sue vie e sul lungo-fiume ho respirato proprio la tranquillità e la bellezza che cerco in una città. Peccato che parlino tedesco. Il giorno stesso devo però rimettermi in marcia per arrivare in tempo all'appuntamento che ho per quella domenica in Svezia. Arrivo a Brema alla sera, dove mi fermo per dormire. E' un venerdì sera, eppure c'è movimento soltanto nella via dei pub che si trova fra il mio ostello (zona stazione) e il centro. Mi spavento quasi a vedere tutto il centro storico deserto (!) alle dieci di sera e non trovo nessun posto aperto per mangiare, ad eccezione di un Mc Donald. Faccio il pieno di calorie e torno in ostello. Quella sera le dinamiche da camerata raggiungono il loro apice, con un susseguirsi di rumori di smartphone lasciato acceso a caricare dall'altra parte della stanza e di sveglia rumorosissima puntata a tutte le ore. In queste circostanze faccio però amicizia con altri 2 inglesi, in viaggio per l'Europa in bicicletta, con i quali vado a fare colazione e a lamentarmi della notte insonne trascorsa. A mezzogiorno raggiungo Amburgo, dove mi fermo per vedermi un po' il centro (affollatissimo) e mangiarmi un kerrywurst. Poi riparto alla volta della scandinavia.




Arrivo a Copenhagen dopo un viaggio e alcune riflessioni a cui ho dedicato un post a parte su questo blog. Dormo in un ostello non lontano dalla stazione e dai Giardini di Tivoli. Noto che i prezzi sono più alti, ma la città mi fa impazzire e decido di ritornarci per un'altra giornata di ritorno dalla Svezia. 
All'una di domenica -in perfetto orario- arrivo alla stazione di Goteborg, dove mi abbraccio timidamente (non ci vedevamo da circa 10 anni) con una specie di zio (il cugino di mia mamma, tecnicamente) che si è offerto di ospitarmi appena ha saputo che passavo dalla Svezia. Anche con il resto della famiglia (moglie e due figli), i primi approcci sono molto alla svedese, fatti di mezzi sorrisi e domande un po' imbarazzate. Però con il passare del tempo il rapporto fra me e loro si scioglie alla grande, fino all'ultima sera insieme (3 giorni dopo), che passiamo a mangiare bucatini e fare giochi di società. Goteborg è una città di porto, più piccola ed eterna seconda rispetto a Stoccolma, ma in fin dei conti carina e arricchita da un'interessante scena artistica/alternativa.



Mercoledì mattina raggiungo Stoccolma, dove vive l'altro zio svedese con la sua famiglia. Anche loro si sono offerti di ospitarmi sebbene siano entrambi molto impegnati dalle importanti responsabilità che rivestono e abbiano due figli piccoli. Stoccolma ha tutto un altro aspetto, è una città molto più antica ed è costruita su 13 isole al centro della foce di un grande fiume. Giro e rigiro affascinato l'isola della città vecchia, dove c'è anche la sede reale. Per certi versi mi ricorda un po' la collina di Montmarte a Parigi. Il giorno seguente lo dedico invece a ricercare i luoghi dove è ambientata la trilogia di Stieg Larson (per la quale ho avuto una fissazione qualche anno fa) e a visitare l'Università di Uppsala, dove potrei finire a studiare per la magistrale. Venerdi mattina, a sei  giorni dalla scadenza del biglietto Interrail, inizio a ridiscendere verso sud e avvicinarmi a casa. Non prima di aver visitato il Parlamento svedese però, proprio di fianco alla stazione.



La seconda volta a Copenhagen nella stessa settimana non mi permette di vedere molto di più della prima volta. Direttomi subito verso l'università, altra possibile destinazione di studio per la magistrale, incontro infatti tre studenti a cui chiedo qualche informazione sulla vita in Danimarca ecc. Loro, in procinto di andare verso il pub degli studenti, mi prendono sotto la loro ala e iniziano a  offrirmi delle birre (essendo io privo di corone danesi). Alla fine rimaniamo a parlare dalle 16 alle 21 e solo allora riesco a dileguarmi e avviarmi verso l'ostello. A differenza delle città tedesche, Copenhagen è molto viva anche di sera. Proprio a due passi dal mio ostello è improvvisata una festa all'aperto con dj, carretti di birre e centinaia di studenti tutti all'incrocio di questa strada. Anche intorno è pieno di localini alternativi e minimarket aperti h 24. Lascio la valigia e torno fuori per farmi un giro ma stavolta non ho voglia di perdermi e fare tardi, quindi resto nei dintorni e non mi prendo nemmeno da mangiare (è un giorno o due che il mio stomaco non sta benissimo, meglio aspettare di vedere come sto a colazione). Non posso fare a meno di notare quanti italiani vivono qui e quante belle ragazze ci sono. Mi fermerei volentieri più a lungo, ma ancora una volta ho dei tempi da rispettare. 


E' l'ultimo sabato sera del viaggio quando arrivo alla stazione di Berlino e mi abbraccio -per nulla timidamente- con Jonathan, il mio compagno di viaggio e dell'università degli ultimi anni, anche lui in fase di nomadismo (senza essersi laureato però ;D). Lasciamo tutto l'armamentario in ostello e usciamo di nuovo per vivere un po' la scena underground. La metropolitana e le strade che ci accolgono quando risaliamo in superficie sono completamente intasate di giovani con la birra in mano. Per qualche attimo ho la sensazione di trovarmi in un film di zombie, viste le orde di ubriachi che ci assalgono e i baby-spacciatori che ci importunano ogni 3 x 2 snocciolando nomi di droghe. A un certo punto ci infiliamo a mangiare qualcosa e quando usciamo -dopo diversi tentativi andati a vuoto per ascoltare un po' di elettronica berlinese o infilarci di straforo in una qualche disco- prevale il buon senso e ci dirigiamo verso il letto. Il piano per il giorno dopo è infatti di noleggiare delle bici e girarci la città. Cosa che facciamo, senza però calcolare che è il primo maggio. Dalla città di zombie della sera prima, Berlino è diventato un vulcano in eruzione. Incappiamo in due manifestazioni: una più politica e in stile festa dell'unità sotto la Porta di Brandebugo, l'altra molto più anarchica e giovanile nella zona del fiume in Friedrichstrasse. Passiamo un'altra notte di camminate a Berlino e la mattina dopo ci dirigiamo verso Praga.



Praga è una città totalmente diversa da Berlino (come lo sono tutte le città da cui son passato): è una città storica ben conservata ed è diventata una città acchiappa-turisti, un po' come Venezia. Noi non abbiamo tanto tempo a disposizione e non vogliamo certo passarlo in coda per visitare musei o cose del genere. La prima cosa che decidiamo di fare è di scalare il monte da cui svetta il borgo antico di Praga, con il suo “castello” e le varie chiese. Facciamo bene, perché la salita ci prende molto più tempo del previsto e torniamo giù che sta già diventando sera. In ostello facciamo amicizia con due ragazzi paraguayani (uno in visita dell'altro) e ci offriamo di cucinare un piatto di spaghetti, mentre loro mettono a disposizione una bottiglia di vino. La discussione va avanti fino a tardi e rimandiamo alla mattina “presto” (“mi raccomando alle 7 siamo in piedi e prepariamo pure la valigia per il check out”) l'ultimo giro per la città. E' infatti già martedì e ci manca l'ultima tappa prima del ritorno a casa. Comunque Praga è un bellissimo posto, come tutta la Repubblica Ceca a giudicare da ciò che vedo dal treno. E' una di quelle città dove si incontrano l'Occidente e l'Oriente, nella fisionomia delle persone come nelle forme dei palazzi e delle chiese. Inoltre è storicamente uno dei principali centri ebraici dell'Europa, come testimoniano le 7 sinagoghe e i cimiteri del quartiere ebraico.




Vienna è la nostra ultima tappa. Qui il nostro cammino si divide momentaneamente e torniamo a casa per strade diverse. Arriviamo sotto la pioggia battente, che per fortunata si placa (ma non definitivamente) quando usciamo dall'ostello per un'ultima passeggiata notturna. Attraversiamo le piazze vuote e luccicanti di pioggia. Ci fermiamo a bere in uno dei pub ancora aperti e poi proseguiamo la nostra camminata, entrando nel giardino e fra i palazzi imperiali degli Asburgo. Sono le tre quando appoggio la testa sul cuscino e le otto meno dieci quando la risollevo. Ci resta il tempo per prendere un caffè, ma lo vogliamo fare con classe e raggiungiamo il Sacher Hotel, dove ovviamente non possiamo non ordinare anche un pezzo di torta sacher. Sorvoliamo sul conto con un'alzata finale e ci auguriamo “buon viaggio” a vicenda.



Io inizio la discesa finale verso Bologna, che in treno è pressoché infinita: circa 10 ore considerando che le coincidenze effettivamente coincidano, cosa che non succede per via di un ritardo (!!) del treno per Innsbruck e che mi costringe a prendere un taxi e a spendere tutti i soldi rimasti. In questo modo riesco però a salire, sotto la neve, sul regionale diretto Brennero-Bologna (dove mi trovo a scrivere queste parole) che sta per arrivare a destinazione poco prima di mezzanotte e in perfetto orario. Si conclude così questa avventura, che da fuori potrebbe sembrare frenetica o addirittura distruttiva, ma che invece è stato un vero piacere, come un lento treno ben oliato sulle rotaie, che col suo ritmo rinsavisce l'anima e con l'alternarsi dei luoghi, dei popoli e dei climi che attraversa non annoia mai. Continuerei o partirei da capo senza nemmeno pensarci se mi venisse chiesto, ma -purtroppo- per ora il viaggio è finito.






GLI INCONTRI
Viaggio per andare a trovare amici e per raggiungere determinate mete, quindi non sono completamente allo sbando e forse sono meno aperto a imprevisti, avventure e deviazioni. Però faccio lo stesso incontri di tutti i tipi, soprattutto negli ostelli, e voglio raccontare qualcuno di questi. 


Il primo che faccio in realtà non è molto felice e non è nemmeno un vero e proprio incontro. Si tratta di un signore sulla sessantina, che noto nello spazio comune dell'ostello a Lione. E' la reincarnazione del tipico vecchio francese di cui Megg Ryan fa l'imitazione nel film "French kiss", immaginandolo seduto a un bar a fumare e ordinare scorbuticamente caffè. Mi resta in mente perché poi me lo ritrovo anche in camera, nel letto a castello di fronte al mio. Sento il suo cattivo odore, tipico dei senzatetto o di chi non si lava per molti giorni. E' sempre lo stesso odore, o molto simile, se ci si fa caso. La mattina dopo, quando mi alzo e vado a fare colazione, lo ritrovo nella stessa identica posizione del giorno prima: seduto allo stesso tavolo, su cui è appoggiata solamente una bottiglia di coca-cola. 
Il signore guarda nel vuoto e si scola la bottiglia a piccoli sorsi, emettendo periodici ruttini gutturali (una sorta di singhiozzo). A dir la verità, ogni tanto guarda verso di me (che sono seduto nel tavolo di fianco). Ha uno sguardo triste e mi fa una gran pena. Però non sono nello stato di attaccar bottone e rispondo soltanto con un sorriso al suo "bonjour" prima di sedermi, fare colazione e andarmene. 




A Parigi incontro Marco, studente italiano in un college inglese e "in vacanza" a Parigi. In realtà i suoi genitori a Parigi ci lavorano da qualche anno e quindi, per lui (cresciuto a Roma), Parigi è diventata letteralmente una seconda (o terza?) casa. L'altra cosa che mi colpisce di lui è la sua precocità, se si dice così: per una fortunata serie di coincidenze che riguardano il suo percorso di studi (primina, scuola superiore con sistema francese e università inglese), lui (nato nel '96) si trova quasi esattamente nello stesso punto in cui mi trovo io (nato nel '93)...cioè si sta per laureare!! Curiosamente a Parigi re-incontro anche altri amici con passati travagliati alle spalle. Uno è Guy, un mio vecchio compagno di corso a Bologna. Nato a Parigi da madre greca e padre italiano, cresciuto in Grecia dai 2 ai 18 anni e trasferitosi in Italia per l'università, ora vive a Parigi per lavorare nella boutique di vini italiani della sorella. Infine re-incontro Arnaud, parigino a tutti gli effetti, che però avevo conosciuto in Sicilia, dove si trovava in vacanza insieme ai suoi compagni dell' erasmus romano.


Durante l'attraversata della Manica conosco, al freddo delle 2 di notte e del vento di Calais, un ragazzo del Kashmir. Mi racconta la situazione incredibile del suo paese, conteso da oltre vent'anni fra India, Pakistan e Cina, che di fatto governano ognuna alcuni pezzi della regione. Non ricordo il nome del ragazzo, lo chiamerò X. X mi dice che studia in Inghilterra e che, per il momento, non ha intenzione di tornare a casa. “Anche se non c'è la guerra”, racconta, “la situazione non è tollerabile perché non si può andare da nessuna parte senza essere fermati in continuazione da militari armati che chiedono i documenti”. Nel frattempo, come è giusto che sia, X e la sua ragazza (indiana) si godono l'Europa e stanno tornando da un viaggio nel Sud Italia. Poco dopo li rivedo addormentati sull'autobus, e penso che sono proprio una bella coppia.



Dopo l'attraversata del mare irlandese (per raggiungere la Scozia), incontro Amanda. Per la precisione ci incontriamo già in terra scozzese, appena scesi dal traghetto e intenti a cercare la fermata del bus diretto verso il centro abitato più vicino. Trovata la fermata, ci mettiamo a parlare nell'attesa. Lei è americana, nata in Oregon e trasferitasi in Colorado per gli studi (psicologia). Ottenuto un lavoro come insegnante, capisce che non è la sua strada e molla tutto. Da qualche anno alterna periodi di viaggio (prevalentemente in solitaria) a periodi di lavoro (giusto per raccogliere un po' di soldi e partire di nuovo). Viene da un mese in Irlanda e viaggia soltanto con uno zainetto da 40 o 50 litri a dir tanto. Facciamo il viaggio per Glasgow insieme, parlando e ritrovandoci su molte cose: la nostra visione del mondo per il futuro, Donald Trump e l'America, il senso della vita ecc ecc. In stazione le nostre strade si dividono e ci salutiamo. Poi però succede una cosa curiosa: la stessa sera, ci reincontriamo in ostello. Io sono con i miei amici, quindi rimaniamo d'accordo per uscire tutti insieme la sera dopo. Così succede, ma la cosa curiosa è la trasformazione che avviene in lei! Dalla viaggiatrice riflessiva del giorno prima, mi ritrovo davanti una festaiola strillona, stra-americanizzata e anche un po' isterica. Per contro, noi le stiamo molto simpatici e pure i miei amici sono molto in buona. Per cui, una volta per strada, inizia l'intonazione di tutte le canzoni stupide e in inglese che ci vengono in mente (dagli Aqua a John Denver). La cosa va avanti per tutto il centro di Glasgow, fra i passanti che ridono e quelli che scuotono la testa e Amanda che se la fa sotto dalla ridarella.

In un pub di Glasgow incontriamo un presunto discendente di William Wallace. Sa tutto della storia scozzese e, a dire il vero, è un po' uno di quei tipi che vogliono dare l'impressione di sapere tutto di tutto. E' un uomo abbastanza trasandato, sulla quarantina, che siede al bancone e impezza chiunque gli si sieda di fianco. E' anche curioso, fa molte domande sull'Italia (paese che ovviamente ha già girato in lungo in largo nella sua vita) e osserva chi parla con un mezzo sorriso, da cui si notano i suoi denti sporchi. Offre a me e Matteo una birra a testa e ci racconta di William Wallace, della sua spada pesantissima e della vera bandiera scozzese (non quella bianca e blu!!).
A un certo punto guarda l'orario e si accorge che deve correre per prendere l'ultimo treno utile per tornare a casa. Ci saluta e ci lascia pure la sua birra (non ancora toccata). In realtà cinque minuti dopo è ancora fuori dal pub, dove ha incontrato gli altri 2 nostri amici e sta fumando “l'ultima sigaretta” in loro compagnia. Dopodiché se ne va veramente.

Sempre a Glasgow e sempre in ostello, ci imbattiamo in un gruppo di giovani che ci invitano per andare a ballare. Eravamo già in direzione del letto e rimaneva poco nei nostri portafogli, ma accettiamo. Fortunatamente il posto è vicino e l'ingresso non è caro, anche se la serata sembra davvero moscia. Comunque ci sediamo (su un divano semicircolare nella penombra di questo scantinato dove si trova il locale) e iniziamo a parlare. Si tratta di un gruppo di volontari del servizio civile internazionale. Vengono da tutte le parti d'Europa e sono lì per una sorta di raduno o di conferenza. Fra loro c'è anche Sara, una ragazza delle Isole Canarie, che è seduta di fianco a me. Mentre parla noto i lineamenti dolci del suo viso e il calore della sua voce. C'è feeling e, anche quando ci alziamo tutti a ballare, restiamo vicini. Prima di andare via, lei va in bagno e io la aspetto. Appena torna, le chiedo un bacio. Capisco che non aspettava altro. Rimaniamo così per un sacco di tempo, mentre i miei amici tornano in camera. Quando ritorno sono ancora svegli che mi aspettano e mi accolgono come il “loro eroe”. E' una grande novità per me, solitamente troppo timido e serio per questo genere di “imprese”. Ma quella notte, ebbro di dolcezza, mi godo tale gloria a pancia su, finché il sonno non mi avvolge.

Circa una settimana dopo, in Olanda, sono seduto sul prato di un'università a pranzare in compagnia di Leonardo, amico di amico (fra l'altro omonimo). E' uno dei primi giorni di sole e il giardino del campus brulica di ragazzi seduti in cerchio, a prendere il sole o a giocare a frisbee. Sono venuto a disturbare Leonardo perché so che, da Bologna, è venuto a studiare qui per la magistrale. Mi racconta di quel posto (così piccolo per ospitare un'università tanto importante!) e della sua esperienza: da uno di quegli studentati-grattacieli, si è dovuto trasferire in una casa più a misura di “essere sociale” (nel cosidetto quartiere “hippy” o “di quelli che non studiano”); visto che gli olandesi (e soprattutto le olandesi) non lo considerano pari, ha legato più che altro con gente della sua “razza” (greci, turchi e spagnoli); l'università prende molto tempo, ma -rispetto ai nostri standard- è abbastanza una cavolata, visto che tutti gli esami sono scritti “open book” (con libro e appunti sotto). Finito gli spaghetti cinesi della mensa, mi prende con sé per un ultimo tour dell'immenso campus e poi ci salutiamo. 

In ostello a Colonia conosco Marc, viaggiatore inglese di formazione ingegnere o, forse meglio, ingegnere inglese di professione viaggiatore. E' appena tornato da un viaggio di sei mesi che lo ha portato- in bici e in compagnia di un amico- al confine fra Cina e Turkmenistan, dove si è dovuto fermare. Durante il viaggio ha sfruttato Couchsurfing e ha stretto un rapporto (non mi è dato sapere se di coppia o se solo di amicizia) con una ragazza che ora si trova a Colonia e che lui è venuto a trovare. Unico dettaglio è che quella mattina lei non si è presentata in aeroporto e su Facebook non risponde. Mi racconta la sua storia mentre facciamo un giro notturno per Colonia e cerchiamo qualcosa di aperto dove mangiare dopo le 22. La mattina dopo lo ritrovo malato al tavolo vicino alla reception, però la ragazza ha letto facebook e risposto che può raggiungerla nel pomeriggio. Gli regalo un aulin e saluto anche lui.

La sera dopo, a Brema, incontro altri due viaggiatori incalliti. Anche loro giovani ingegneri inglesi (o qualcosa del genere) e anche loro biciclettari. Vogliono arrivare in Polonia. Stringiamo amicizia per solidarietà, nel tentativo di sdrammatizzare dopo che tutti i telefoni e le sveglie della camerata hanno suonato a intermittenza per quasi 30 minuti poco dopo l'alba. Cerchiamo di riaggiustare la giornata facendo colazione insieme al supermercato sottostante. Inizia la caccia ai prodotti meno cari e con più kilocalorie. Alla fine loro optano per qualche bignè, cioccolata, banane e baguette. Io decido di prendere anche della frutta secca, fra cui alcune albicocche disidrate (“The farmer's snack”) che saranno la mia rovina gastro intestinale qualche giorno dopo. Finita la colazione ci salutiamo già, anche se siamo tutti diretti ad Amburgo, con una lieve differenza nei tempi di percorrenza: 2 ore mie contro le loro 9-10.

In ostello a Copenhagen faccio in tempo a fare un bagno di italianità trovandomi a colazione una banda di cinque o sei italiani di Lecco. Sono in vacanza e tutti rigorosamente maschi Parlano di calcio, colorendo il linguaggio con continue bestemmie ed espressioni lombarde. Però hanno un obbiettivo ben chiaro in mente: dopo il graffito su un muro di Copenhagen simboleggiante la storica promozione del Crotone in serie A (squadra del cuore di DottMace, lo street artist del gruppo), vogliono recarsi a Malmo -città natale di Ibrahimovic- e omaggiare lo “zingaro” con un seondo graffito.



Infine la coppia più strana la incontro sul tratto Copenhagen-Berlino. Si siedono accanto a me in entrambi i treni che prendiamo, eppure sembrano non notarmi affatto. Io pure cerco di non fissarli troppo, ma sembrano veramente usciti da uno di quei libri molto fantasiosi per bambini. Infatti li associo mentalmente a una coppia di ladri vista forse in qualche puntata di Pippi Calzelunghe o da qualche parte, ma anche a una non ben identificata coppia di esploratori. Sono probabilmente danesi o comunque di qualche paese nordico e avranno poco più di trent'anni. Si siedono l'uno di fronte all'altro dopo avere appoggiato le loro ingombranti valige sui sedili a lato. Uno dei due ha legato a una delle sue borse un mazzo di pochi bastoni tutti storti, che puntualmente cadono e si impigliano fra i sedili durante gli spostamenti dal treno. Questo tipo, dai capelli neri, è anche quello vestito in modo più stravagante: con pantaloni attillati e un gillet nero a coprire la camicia bianca in stile medievale (senza bottoni). L'altro, biondo e barbuto (un vero vichingo), è vestito semplicemente da fricchettone. Il moro ha l'aria di uomo più vissuto e capitano dei pirati, come dimostra la maestria con la quale insegna al biondo a fare delle specie di nodi a un rotolo di spago che hanno con loro. Il biondo ascolta e mette in pratica pazientemente le sue istruzioni (per l'intera durata del tratto Amburgo-Berlino), e così passano il tempo. In silenzio e completamente al di fuori della realtà. Ogni tanto il biondo si alza per comprare del caffè, mentre il moro tira fuori dalle sue tasche ogni sorta di caramelle e cioccolatini. Lì perdo di vista nel caos della stazione di Berlino, mentre cerco di orientarmi fra i tanti piani e le scale mobili che la caratterizzano.



domenica 24 aprile 2016

Oltre le barriere

23/04/2016 Sabato

Sto attraversando l'Europa con un biglietto Interrail. Il treno Amburgo-Copenhagen viene fatto salire su un traghetto per l'attraversata di un breve tratto di mare che separa Germania e Danimarca. C'è il sole e tanta gente è seduta all'aperto sul ponte della nave, intenta a godersi il paesaggio o a fumarsi una sigaretta. A un certo punto un grosso gabbiano vira dal mare proprio verso di noi, sfiorando le teste di una coppia di ragazzi seduti di fronte a me e puntando dritto verso un signore in piedi poco più avanti. Sembrerebbe che voglia appollaiarsi sulla sua spalla, ma in realtà quello che gli interessa è il gelato che sta nella sua mano. Il signore, un po' perso a guardare il mare e in chissà quali pensieri, non si è accorto del gabbiano ma evidentemente percepisce il contatto o la presenza di qualcosa perché si volta di scatto in direzione della propria mano. Ormai però il furto è stato compiuto, il ladro è stato veramente fulmineo...che agilità ! Dovreste vedere la faccia del signore mentre guarda incredulo la propria mano vuota e accenna un'ironica protesta, avviandosi poi verso l'interno della nave (per comprare un altro gelato forse, o semplicemente per uscire di scena dal teatrino di cui è involontariamente diventato protagonista). Ovviamente l'accaduto suscita l'ilarità generale e all'improvviso il ponte della nave si riempie di risate, che curiosamente diventano contagiose e, a intermittenza, si protraggono abbastanza a lungo (sebbene la maggioranza dei presenti non si conosca e sia costituita da "impassibili" nordici)! 




Questa atmosfera "distesa" dura però solo pochi altri minuti, infatti l'attraversata è quasi terminata ed è ora di risalire sul treno. Questo, appena sceso dal traghetto, fa pochi metri e si ferma. Siamo in territorio danese: sale un gruppo di poliziotti con divisa fluorescente, che iniziano a chiedere i documenti a tutti i passeggeri. Hanno modi di fare gentili e parlano un ottimo inglese. Alla fine, dopo una decina di minuti, quattro persone del mio vagone vengono fatte scendere dal treno. Fra queste c'è anche il ragazzo che era seduto proprio dietro di me. Quando la poliziotta gli chiede se ha un documento, lui risponde subito di no. Allora lei lo invita a prendere i suoi bagagli e a seguirla fuori. Ha con sé solo un marsupio a tracolla e delle cuffiette per la musica. È vestito abbastanza elegante, con una camicia sotto a un maglioncino a bottoni. Ha l'aria seria, ma non tesa o in agitazione. Nonostante il colore della pelle un po' scuro, non avevo assolutamente pensato che potesse essere un "profugo" (diciamo siriano), uno dei tanti in cerca di raggiungere i paesi scandinavi e stabilirvisi (e magari non lo è ed è un caso il fatto che non portasse documenti). 

Mentre il ragazzo viene accompagnato da qualche parte nella dogana e il treno si appresta a ripartire, provo una stretta al cuore e mi sento un po' in colpa. A me, seduto nello stesso treno ma biondo, non è stato nemmeno controllato il documento (ok magari sono semplicemente sfuggito ed è stato un caso). A me, italiano, è permesso salire su ogni treno e attraversare ogni confine nazionale semplicemente comprando un biglietto e mostrando la carta di identità. A me, educato in modo regolare nelle scuole pubbliche italiane -e anche da genitori eccezionali ok, esperti in pedagogia e di mente molto aperta-, sono dati tutti gli strumenti necessari (linguistici, socio-culturali, economici ecc) per essere veramente "cittadino del mondo" e cavarmela egregiamente dovunque io decida di andare. E invece al ragazzo siriano? Che cos'ha fatto lui -eccetto non nascere entro i confini europei- per non meritarsi questi diritti? So che questa domanda suona scontata e retorica, ma pensiamoci: perché lui no?! La Siria e il sud del mondo in generale sono paesi più arretrati e poco stabili ok (e anche qui ci sarebbe da chiedersi e approfondire il perché). Nel sud del mondo sono diffuse fedi religiose e attitudini culturali diverse, che in passato hanno favorito la formazione di barriere e l'isolamento dai paesi occidentali, ok. Ma quindi? Possibile che a 2500 anni, da quando è iniziata a circolare l'idea di "cosmopolitismo" (che poi, in circostanze e tempi diversi, ha dato origine a parole come "fratellanza", "comunismo", "globalizzazione") si siano fatti così pochi passi avanti in questa direzione (che, è inutile negarlo, è quella da prendere in un'ottica nemmeno troppo futura)? Possibile che si debba sentir parlare di "exit" dall'euro e dall'Europa, o di certi discorsi campanilistici riguardo alle "fusioni" che si stanno verificando sempre più in ogni campo e a ogni livello? È troppo innovativo accettare il fatto che, oggi, "guardare ognuno il proprio orticello" non solo è anacronistico, ma è proprio sbagliato? Quando inizieremo ad aprire occhi, orecchie, mani, cuori, e ci renderemo conto che c'è sempre più bisogno di seguire -ma anche pensare e costruire insieme- una direzione comune, piuttosto che mille deviazioni, cieche e per di più sbarrate a molti da inutili barriere?


venerdì 12 febbraio 2016

Festival della filosofia


C'è un breve periodo dell'anno, 3 giorni solitamente nella terza settimana di settembre, in cui la città di Modena si trasforma. Fioriscono bancarelle di libri e iniziative di ogni tipo in tutto il centro della città. Gruppi di giovani e di famiglie brulicano per le strade e affollano i bar. I musei aprono le porte fino a mezzanotte e per questi tre giorni non richiedono biglietti. E soprattutto le piazze prendono vita! Si riempono di persone, tantissime persone in piedi, sedute, sedute per terra, in bici, e chi ci passa non può che fermarsi almeno per qualche minuto. Perché le piazze assumono una voce in quei tre giorni -ogni ora diversa per argomento, lingua, timbro- e come si fa a non fermarsi, anche solo per il fascino?!

Ma non solo per il fascino, il festival della filosofia è animato da “sapienti” che sanno parlare benissimo e spaziano su tutto. Non solo filosofi, ma sapienti di “razze” anche molto diverse. Anzi, personalmente i filosofi sono quelli che evito.
In genere ricerco conferenze con della sostanza, senza troppi paroloni e titoli che non capisco, ma che alla fine mi diano qualcosa e mi facciano sentire almeno un minimo “cresciuto” come persona. E devo dire che da 6 o 7 anni (da quando ci vado) ne ho sempre trovate di conferenze così. E poi non solo conferenze, e nemmeno solo a Modena! Fra le vicine Carpi e Sassuolo si trovano facilmente film, documentari, concerti e spettacoli se si legge bene il programma. Anche questi tutti gratuiti.



E' soprattutto per un sentimento di riconoscenza e gratitudine che sto scrivendo questo articolo. Si dice spesso che in Italia non si investe nella cultura, nella ricerca ecc ed è vero. Però ci sono eccezioni come questa che confermano la regola, e che vanno tutelate e valorizzate. Il fatto che spazi pubblici, chiese, musei, monumenti vengano attrezzati e aprano le porte per ospitare a titolo gratuito eventi culturali di spessore è per me una cosa bellissima. Spero quindi che il festival della filosofia mantenga questa linea e non segua l'esempio di altri festival (come quello della letteratura di Mantova o quello …......... di Sarzana) che hanno recentemente inserito un biglietto per poter assistere alle iniziative, trasformandole di fatto in spettacoli a pagamento. Infatti il bello di questo festival, per me, è anche la possibilità di viverlo alla giornata e lasciare spazio agli imprevisti e alle sorprese. D'altronde essendoci così tanto bisogna per forza mettersi il cuore in pace, scegliere i propri “irrinunciabili” e per il resto del tempo prendere ciò che passa in convento o ciò a cui conducono l'istinto e le sensazioni.

Se si ha modo, ad esempio attraverso parenti o amici generosi, consiglio di provare a vivere il festival e la città dall'interno, e non da fruitori pendolari. Avviarsi la mattina verso il centro storico di una delle tre città dove si svolge e restarci. Alzarsi dal posto a sedere faticosamente guadagnato se la conferenza non interessa e iniziare a girovagare. Comprare un libro e un pezzo di focaccia. Entrare nei musei civici o nei palazzi della città. Tornare lentamente in casa per pranzo o per cena e poi uscire ancora per i programmi serali, e per le città di notte. Che, vedrete, quasi, non riconoscerete più! Come accennato il festival si svolge su tre città contemporaneamente, che sono vicine (una più a sud e l'altra più a nord rispetto a Modena) ma non poi così vicine. Occorre quindi un mezzo a motore se ci si vuole spostare o una tabella degli orari di treni e autobus.

Infine un informazione poco conosciuta: ogni anno c'è la possibilità per 20 studenti di università italiane o straniere di fare richiesta per ottenere una borsa di studio (utile a coprire i costi di viaggio e soggiorno) e vivere il festival a stretto contratto con i suoi protagonisti.

Confessioni di un exchange student

C'è un angolino d'America dove ho passato un anno della mia vita, quello dai miei 17 ai quasi 18 anni. E' nell'East Coast, a metà strada fra Washington e New York. Un giorno di agosto ci sono piombato, accolto da una famiglia desiderosa di ospitare un ragazzo straniero. Così, come sempre maggiormente sta accadendo a studenti delle superiori d tutto il mondo, mi sono trovato tutto a un tratto sotto a un nuovo tetto, in mezzo a gente che non conoscevo e che non parlava la mia lingua. Eppure lì per lì non ho provato lo shock di cui ero stato avvertito. Sono stato accolto in modo gentile e sistemato in una larga stanza per gli ospiti nel basement (il seminterrato moquettato e dotato di mega tv e divanone in pelle, sede di tutte le battaglie a Call of Duty e dei pigiama party della casa). Nella mia nuova famiglia vivevano 3 fratelli più piccoli di me, un padre costaricano naturalizzato americano e una madre americana di origini tedesche.

Per me non è stata la figata colossale che ci si potrebbe aspettare (anzi, per certi aspetti è stato un vero disastro). Ho l'impressione che tutti si aspettassero grandi cose da me, e che invece io abbia fatto tutto il contrario...Non ho saputo integrarmi veramente nella famiglia, non sono stato popolare nella scuola, non ho conquistato ragazze, non ho imparato bene la lingua, non sono nemmeno più riuscito a giocare bene a calcio nella mia nuova squadra o a fare un buon piatto di pasta! Analizzando la mia esperienza a posteriori direi che ci sono moltissime variabili in gioco, che ricadono in due categorie principali. La prima comprende il carattere e lo "stato mentale" con cui si arriva. Io ad esempio, per come sono fatto e per l'acuta fase di ricerca di me stesso in cui mi trovavo, sentivo più che altro il bisogno di starmene in pace (mentre questo non è proprio ciò che le famiglie e i compagni di scuola si aspettano da un exchange student). Il secondo gruppo di variabili è compreso nell'ambiente stesso in cui si svolge l'esperienza. Ovvero il luogo, il tipo di famiglia ospitante, la scuola, gli altri exchange students nella zona ecc.

A posteriori mi vien da dire che tutto questo potrebbe essere dovuto al fatto che ero partito un po' inconsciamente, senza essermi chiesto granchè del perchè partivo e del posto in cui andavo. A 17 anni può succedere, non significa che sia per forza così, ma può succedere. D'altronde all'epoca non vedevo l'ora di allontanarmi per un po' dallo studio e dal provincialismo che attribuivo sprezzantemente al mio paese e a tutto ciò che mi circondava. Così, istigato anche da una amica che aveva fatto la stessa esperienza, feci domanda in comune accordo coi miei a Intercultura e fui preso. Sarei potuto finire dovunque in mezzo mondo, e finii a Kennett Square, paese di un qualche migliaio di abitanti nello stato della Pennsylvania. Famoso a livello mondiale per la coltivazione intensiva dei funghi, attività che impregna l'aria di un odore caratteristico e che attira le famiglie meno abbienti (soprattutto messicane) di cui è richiesta la manodopera. Intendiamoci non me ne sto lamentando, a dire il vero non feci nemmeno caso a queste cose mentre ero lì! Poi la nostra casa era lontana dal paese, sul confine con un altro stato (il Delawere) e nel bel mezzo di un labirinto di strade immerso nel verde. Lì l'aria non sapeva di funghi e risalendo un ruscello si poteva raggiungere una riserva naturale con una grande cascata, anche questa immersa fra gli alberi e un labirinto di strade e sentieri che ho imparato presto a conoscere.

La mattina l'autobus giallo dei simpson ci caricava in fondo alla via. Una mezzoretta insieme a uno dei fratelli e ai mocciosetti che abitavano nei dintorni precedeva il suono della campanella (alle 7.35, me lo ricordo ancora!). Non mi piaceva prendere il pulmino, e nemmeno mangiare alla mensa della scuola. Mi sembrava di essere tornato ai tempi delle medie o delle elementari. Così trovavo degli stratagemmi per non dover usufruire di quei servizi. Ad esempio mi portavo il cibo in biblioteca e mangiavo lì per conto mio, nascondendomi fra i libri perchè non era concesso andarci all'ora di pranzo. Ora che ci penso mi vergogno e provo un po' pena per questi miei atteggiamenti. Erano causati principalmente dalla timidezza e dall'agitazione che mi mettevano certi contesti sociali, come la mensa e gli spogliatoi prima di educazione fisica. Ricordo invece il piacere con cui mi recavo a certi "club", attività pomeridiane autogestite da alcuni studenti, come ad esempio quello dei giochi di società. Fra "nerdoni" e persone tranquille, che reputavo simpatiche, mi trovavo a mio agio (sebbene non fossi mai stato un appassionato di giochi di società). Fra gli sport scelsi solo calcio, e mi pento ancora di non aver provato nulla di nuovo mentre ero là. Andai però qualche volta a guardare le partite di hockey su ghiaccio e iniziai un po' ad appassionarmi a quello sport. Sport che ho di recente iniziato a praticare amatorialmente qua in Italia.

Infine ricordo il giorno del ritorno in Italia, l'abbraccio finale e il distacco dalla famiglia che mi aveva accolto per gli undici mesi precedenti. Non mi uscirono lacrime, come non me ne uscirono durante tutto quell'anno aldilà dell'oceano. Quella sera o la mattina seguente partii con i pochi altri exchange students della zona (che nei mesi precedenti non avevo avuto modo di vedere se non in rare occasioni organizzate dall'associazione) e arrivai a NY, dove nel frattempo erano stati radunati tutti gli italiani ed exchange students di ritorno dall'east coast. Anche in quell'occasione, con centinaia di ragazzi e ragazze da tutto il mondo senza nulla da fare, non mi smentii: dopo un po' che ero in mezzo a quella bolgia, presi le mie cose e andai a cercarmi un posto isolato dove stendermi. Aspettai così, ascoltando la musica su un prato assolato, finchè non arrivò il momento di salire sull'autobus e poi sull'aereo di ritorno. A Milano fui accolto dai miei veri genitori e i miei fratellini, con il più piccolino che non si ricordava più chi fossi. Fu un po' strano, a un certo punto ci fermammo in autogrill e sembravamo degli estranei mentre mi chiedevano se "gradivo qualcosa". D'altronde un anno senza vedersi fa un po' quest'effetto all'inizio. Man mano che ci avvicinavamo e che iniziavo a riconoscere posti familiari sentivo il mio cuoricino scaldarsi. Km dopo km. Poi arrivammo e parcheggiammo, ma lì per lì non vidi nessuno. Mi avevano preparato uno scherzo, un mega gavettone scagliato dalla finestra, ma anche un bellissimo pranzo in terrazzo con tutti i miei amici e parenti più stretti e alla sera una festa super riuscita.

Così mi trovai all'improvviso all'altro estremo: abbracciato dalle persone più care, nei luoghi, nei suoni e nei sapori che conoscevo. Fu bellissimo ma disorientante per alcuni mesi. Appena arrivato dovetti poi mettermi a sudare per recuperare tutte le materie a settembre, e soprattutto per trovare un equilibrio (che forse non avevo mai davvero avuto) a cui però quel "piattissimo" anno in America aveva dato un bel colpo e levato molti piedistalli di sicurezza. Ritrovai la mia ragazza della pre-partenza ma non funzionò, ci mollammo dopo alcuni mesi perchè troppo distanti. Questi 4 anni e mezzo che sono passati dal mio ritorno li vedo ora come un progressivo risveglio dal mio "torpore protettivo", così evidente durante l'anno in America e nei mesi successivi. Torpore che nel mio caso tende a manifestarsi in vari modi: ad esempio con la bassa ricettività nei confronti di ciò che accade intorno a noi; con l'inefficacia della maggior parte delle relazioni interpersonali che si sviluppano; e infine con il limitato riconoscimento e la conseguente limitata espressione delle proprie emozioni. Ci ho lavorato con tutta calma, senza farmi aiutare (se non dai miei amici), e in contemporanea a un processo di interessamento e (ri)scoperta delle mie radici e di ciò che conta davvero per me.

Grazie all'anno all'estero mi sono accorto di avere gli occhi mezzi tappati e sto cercando di aprirli. Non voglio lasciarmi sfuggire le meraviglie che il mondo offre a chi ci sa stare nel modo giusto. Inoltre è grazie all'anno all'estero che ho riscoperto il mio interesse per la natura, ambiente in cui sono cresciuto (senza però dargli valore) e che sta indirizzando i miei studi universitari.

Grazie