mercoledì 3 agosto 2016

Altro Salento

Arrivo in Puglia un pomeriggio di fine luglio, dopo una partenza prima dell’alba e oltre 10 ore di dormiveglia in macchina. Sono con tutta la famiglia, per quella che potrebbe essere l’ultima vacanza tutti insieme (a settembre me ne andrò a vivere all’estero e chissà quando ritornerò…ma di questa storia parlerò più avanti). 

La nostra base è una villetta squadrata nelle campagne circostanti Santa Maria di Leuca, il punto più a sud del tacco d’Italia (dove Mar Ionio e Mar Adriatico confluiscono). Il mare è a una decina di km in linea d’aria, ma non lo scorgo all’orizzonte nemmeno salendo sul tetto. Da quassù l’unica cosa che si vede sono gli ulivi: infinite distese di alberi perimetrate da muretti di sasso. Un pomeriggio, in cerca di un po’ di calma e di solitudine, decido di inoltrarmici a piedi. Una dopo l’altra, imbocco queste strette strade di campagna (in gran parte asfaltate) e ben presto non so più dove mi trovo. Tanto più che a un certo punto sento della musica e comincio a inseguirla. Si tratta inizialmente di percussioni alternate a un mandolino o a qualche strumento della tradizione pugliese. Pare che qualcuno lì vicino stia provando. Poi però il sound si fa più moderno ed elettronico, e sembra arrivare veramente da un punto vicino. Mi chiedo se in mezzo a questi campi di ulivi non ci sia una qualche casetta riconvertita a centro giovanile o discoteca. Sono molto incuriosito, ma nel frattempo il sole inizia a calare e si accresce in me anche un senso di angoscia. Non conosco queste strade e ovviamente non ho portato il cellulare con me… Alla fine arrivo in un punto più aperto, che affaccia sulla pianura sottostante. Capisco che la musica arriva semplicemente dal paese vicino, dove evidentemente ci sarà un concerto all’aperto. Al che torno sui miei passi per un breve tratto e - un po’ grazie all’intuito, un po’ per fortuna- riesco a tornare a casa abbastanza velocemente.


Il Salento, come tanti posti del Sud Italia, è questo: una terra capace di attirarti con le sue bellezze, rapirti nella vastità delle sue distese e puntualmente deluderti (magari presentandoti un cumulo di detriti e spazzatura all’entrata della più bella spiaggia che tu possa immaginare). Le etimologie del nome Salento conducono tutte alla presenza del mare, con ogni probabilità l’elemento ancora oggi più importante per questa terra. Da alcune decine di anni, migliaia e migliaia di turisti arrivano infatti ogni estate da tutta Italia per goderselo. Si affollano così le spiagge e i borghi più noti (Lecce, Gallipoli, Ostuni, Polignano a Mare ecc). Venditori ambulanti e strutture ricettive fanno così la loro fortuna. Sembrano tutti felici e contenti in questo modo, ma in realtà il Salento comprende anche molto altro che, invece, rimane nell’ombra. Lo si trova nelle campagne e nei paesi dell’entroterra. Nelle cucine e nelle tradizioni folkloristiche. Nei circoli mandolinistici e nelle chiese. Ma come si fa a scoprirlo?


Ancora una volta, il modo migliore è conoscere qualcuno del posto che ti porti in giro. Nel mio caso questo qualcuno si chiama Giuseppe, il fidanzato della mia vicina di casa (nonché cugina aquisita) di Bologna. Io e mio fratello siamo loro ospiti per un paio di giorni. Siamo nell’Alto Salento, a non molti km da Ostuni. Lì ci dirigiamo per la serata, non prima però di una giornata di mare presso la spiaggia di S.Pietro in Bevagna (nella costa ionica) e di un piatto fumante di spaghetti al sugo di pomodoro e fagiolini lunghi. Andiamo ad Ostuni per via di un festival di musiche del mondo, pur consapevoli della quantità di turisti con cui dovremo fare i conti. In effetti “la città bianca” –dove avevamo fatto pausa pranzo all’andata- è quasi irriconoscibile. Essendo così affollate, le piazze e le viuzze assumono un aspetto del tutto nuovo! Rimasti fra gli ultimi spettatori di un concerto di musica messicana iniziato all’una e un quarto di notte, decidiamo che possiamo essere soddisfatti della serata e ce ne torniamo a casa. La mattina seguente, decidiamo di rimanere in zona per la giornata e ci facciamo guidare per il paese e i dintorni. Sebbene le zone costiere possano apparire in tutto e per tutto simili a quelle del Basso Salento, basta allontanarsi un poco verso l’entroterra per notare come le infinite distese di uliveti del Basso Salento lascino il posto talvolta a distese aride e semidesertiche (interrotte soltanto da qualche albero, grotte e cave di tufo o da antiche masserie), talvolta a coltivazioni intensive di pomodori o altri ortaggi. Mentre la vecchia panda di Giuseppe imbocca strade sterrate ed evita buche, mi accorgo di quanto sia essenziale il sole caldo e la luce accecante per queste terre del sud.


Il paese di Giuseppe ha in realtà 20 mila abitanti e si chiama San Vito dei Normanni. Come tutti i paesi salentini che ho visto finora, il centro storico è contenuto ma è molto carino. Un antico castello orientaleggiante e un po’ decadente si affaccia sulla piazza principale, come anche il circolo mandolinistico, una chiesa e un bar coi tavoli all’aperto. Le chiese, sfarzosamente barocche e un po’ fatiscenti, definiscono la parte storica di S.Vito. Forse in questo periodo, forse a quest’orario o forse tutto l’anno, per le strade non si incontra quasi nessuno. Gli unici posti affollati (di soli uomini però) sono i bar. Ce n’è uno in particolare che è molto caratteristico: si trova al piano terra dell’edificio che ospitava il cinema storico del paese, ora non più in funzione perché non a passo coi tempi della tecnologia. L’insegna del vecchio cinema però sovrasta la piazza, che è in realtà un parcheggio ai margini del centro storico. Tutto intorno ai tavolini, dove si tengono fitte conversazioni nella penombra degli ombrelloni, sono ferme tantissime auto e pure un trattore. Quando passiamo noi, ho l’impressione che tutti ci fissino e guardino che cosa facciamo. Dopodiché, oltrepassato il bar e usciti dal centro, è il nulla più totale. Le strade perpendicolari e gli edifici tutti uguali (cubici e a due piani) che stanno ai lati, rendono questi luoghi tristemente prevedibili e desolanti. (Ricordo, a proposito, il senso di gratitudine che può dare anche solo la presenza di una piccola cappella con la Madonna: un goccio di tradizione nel mare di cemento della periferia). Di edicole o attività commerciali di qualsiasi tipo neanche l’ombra. Solo abitazioni, tutte provviste delle tipiche “rezze”, tapparelle in legno utili a mantenere il fresco nelle case e, come mi viene riferito, “a osservare fuori senza essere visti”. Nel pomeriggio usciamo dal paese, verso le campagne. A bordo della panda, mentre Anna ripercorre per noi le affascinanti storie dei suoi antenati, raggiungiamo il famoso campo di ulivi secolari appena fuori. Di lì ci inoltriamo ancora di più per le campagne, iniziando a percorrere strade bianche. Siamo alla ricerca di posti abbandonati. Raggiungiamo una vecchia grotta, nei pressi dei quali è stato costruito un grande muro a recintare quella che è una delle poche masserie ancora "in uso". Lo testimoniano le galline e alcuni panni stesi al sole. Ma è la desolazione più totale, e non ci dispiace molto che l'ingresso sia sbarrato. Nella nostra ricerca raggiungiamo diverse case cubiche costruite alcuni decenni fa dallo Stato e oggi frequentate in gran parte soltanto da gruppi di cani randagi, che ci accolgono con l'affetto di chi vuole giocare (e magari anche qualcosa da mangiare). Ci fermiamo a raccogliere i chili di fichi che pesano sui rami degli alberi. Mamma che dolci... Infine proseguiamo verso la masseria più bella, abbandonata da chissà quanto. E' pieno pomeriggio e non c'è una nuvola in cielo. Mentre camminiamo verso la corte diroccata, sento tutto il calore del sole sotto alle mie infradito. Oltrepassato l'arco di ingresso, mentre attraverso il semi-buio di uno dei grandi saloni, ho l'impressione di trovarmi nel libro di Ammaniti "io non ho paura". La masseria è abitata da piccioni e non ha vetri alle finestre. Ci sono scritte nere sui muri e un po' di sporcizia per terra, ma questi sono gli unici segni dell'arrivo della modernità. Una antica sacralità impregna ancora le stanze dei latifondisti di un tempo, le cui lastre dei pavimenti sono state tutte rubate. Raggiunta la riserva di Torre Guaceto, ci tuffiamo nell’Adriatico. La spiaggia è affollatissima, ma il mare è qualcosa di incredibile.  Le ultime ore insieme le passiamo rifocillandoci all'ombra di un chioschetto nei pressi di una stazione. Dopodiché il trenino per Lecce, dove ci aspettano i miei, arriva puntuale. La solita voce dell’altoparlante di Trenitalia è confortante e anche i 50 minuti di tragitto che ci separano dalla città scorrono in fretta, senza che il controllore abbia il tempo (o la voglia) di controllarci il biglietto. E' il tramonto, e sono felice di condividere questo piccolo tratto con mio fratello.


Lecce è stupenda. Luci calde, roventi pavimenti ciottolati e tanta storia accumulata in ogni angolo ci accolgono con un abbraccio mediterraneo e seducente. E’ sera ed è bellissimo camminare per le sue vie, nemmeno troppo affollate a dire il vero. Tutta la zona fra il duomo e la piazza con l’anfiteatro romano (riportato alla luce meno di un secolo fa) è degna del soprannome che è stato dato alla città: la Firenze del Sud. A pochi km dal mare, di respiro cittadino e non solo città turistica, Lecce è uno di quei posti dove vorresti tornare  ed esplorare più a fondo. Ci fermiamo a ri-mangiare, dopodiché continuiamo ancora un po' questa insolita e felice passeggiata di famiglia.


Gli ultimi giorni sono un ritorno alla “normalità” della vacanza, con la routine e ritmi lenti della famiglia al mare. Giochi di società e sport da spiaggia di ogni tipo animano le giornate, così come la caccia ai pokemon animano le uscite serali nei paesi vicini. La serata che però voglio riordare è quella passata a Specchia, paesino di 5mila abitanti non lontano da Presicce e ,di conseguenza, da Leuca. Arriviamo dopocena, non troppo fiduciosi nei confronti di un manifesto attestante "concerto di pizzica in piazza" per quella sera. E invece ci basta aprire lo sportello della macchina per capire che il concerto c’è, eccome se c’è!! La piazza, con il palco e tutta la gente attorno a ballare, è uno spettacolo. Lo sarebbe già di suo, grazie alla chiesa e ai palazzi eleganti che la adornano tutta, ma con questa atmosfera è veramente un posto magico. Un gruppo di musicisti cantano in dialetto e suonano per il pubblico. C’è un fisarmonicista, un chitarrista, un tamburelliere e due cantanti (uno uomo e una donna). Per tutta sera alternano pezzi della tradizione pugliese a tarantelle e valzer riadattati in chiave salentina. I miei, mia mamma in particolare, ballano come matti. A un certo punto però, i ballerini si fanno da parte e ricavano lo spazio per la “tarantolata”. Una ragazza viene portata in braccio e deposta sul lenzuolo bianco che è stato steso al centro della piazza. Sotto i colpi percossi dal tambrelliere, la ragazza inizia a riprendere i sensi e a risvegliare le membra del suo corpo. Per un tempo indefinito gli sguardi di tutti sono ammaliati dalla creatura bruna avvolta nel lenzuolo bianco. Il ritmo del tamburo scandisce il suo nome ad alta voce: si chiama "Puglia" e ci ha tutti stregati!