sabato 26 dicembre 2015

Viaggio in Sicilia


A fine ottobre del 2015 approfitto di un progetto di collaborazione fra alcune università per scendere a Palermo, principale città di una terra dove non sono mai stato. Parto da casa all'alba di un sabato mattina autunnale e poco dopo le 8 sono già con i piedi sull'isola. “Lunedì conoscerò gli altri studenti che partecipano al progetto, mentre questi due giorni li userò per girarmi a modo Palermo” penso. Però intanto sono da solo e mi sento un po' spaventato, è infatti molto tempo che non faccio esperienze simili e non so bene cosa mi aspetti. Starò via 10 giorni, di cui solo tre impegnati dalle attività del progetto. Ma ho molte idee e un piano di massima per gli spostamenti. 
Così atterro in anticipo all'aeroporto Falcone-Borsellino di Punta Raisi (a 30 km dal centro di Palermo), ricavato in un esiguo spazio fra il mare e le montagne. Esco all'aperto, zainone in spalla, e mi scontro subito con questo problema della “mafia”: l'aeroporto sarebbe collegato alla città da una linea ferroviaria, la quale però è interrotta da alcuni mesi per lavori ed è sostituita da autobus; se non fosse che questo servizio inspiegabilmente non parte dal terminal, ma a 1 km e mezzo di strada -in località Pinareto- e pertanto la stragrande maggioranza dei passeggeri diretti a Palermo non fa uso di questi autobus, ma di quelli privati (della compagnia Presti e Comandè), o dei taxi, parcheggiati proprio fuori all'uscita degli arrivi. Mentre cerco di comprendere la situazione e valutare a chi affidarmi (e soprattutto a chi affidare i miei soldi) vedo un gruppo di tassisti appoggiati alle loro macchine e mi avvicino per chiedere informazioni. Sapendo che Cinisi -il paese natale di Peppino Impastato dove si trova anche un museo a lui dedicato- dista meno di 10 km dall'aeroporto, provo a sentire quanto vogliono per un passaggio fino a lì. Mi dicono, dopo un secondo di esitazione vista l'originalità della richiesta, che la tariffa minima è 35 euro (praticamente la stessa per andare a Palermo). Ma la cosa curiosa è che subito dopo iniziano a parlare male di Cinisi e cercano di distogliermi dall'idea di andarci. Quando gli dico che è per il museo di Peppino, cominciano a parlare male del personaggio e affermano che  “se Cinisi è ancora in piedi è soltanto per un certo Don Tano, che ha fatto costruire questo aeroporto lì vicino”. Dopodiché ci salutiamo, chiaramente il prezzo del loro servizio e quella compagnia non è nei miei interessi.
Alla fine però devo cedere alle circostanze e al peso sulla schiena, rinunciando così alla pazzia di scalare il monte che mi separa da Cinisi e dirigendomi  direttamente a Palermo. Ci arrivo con un taxi condiviso con altre 7 persone, per il quale pago 8 euro. Il mio ostello è molto internazionale e vicino a Piazza Marina, sebbene la facoltà sia lontana quello che mi convince è la tariffa (16 euro e la colazione in bella vista). “Parto un po' prima e mi faccio una bella passeggiata, o al limite prendo l'autobus”, mi sono detto. Entrambe le cose si sono rivelate più facili a dirsi che a farsi: Palermo ha i marciapiedi più stretti che io abbia mai visto e la guida meridionale (per uno come me praticamente mai sceso sotto Roma) è un'esperienza di vita che può dare da fare nei primi giorni, richiedendo quattro occhi al posto di due (uno, contando che l'altro è fisso in giù a guardare google maps ed schivare le cacche di cane); gli autobus urbani possono invece cambiare la vita del malcapitato turista, sempre che la destinazione sia abbastanza centrale e non quasi in periferia come la mia. Tuttavia l'uomo è un essere dotato di grande capacità di adattamento e così anch'io, dopo l'iniziale stordimento, inizio a cavarmela e a destreggiarmi in questa giungla di città.


I miei giorni a Palermo passano in fretta, tra il progetto all'università che mi occupa la mattina e parte del pomeriggio, le serate con alcuni ragazzi conosciuti in ostello e i giri in solitaria per annusare e perdermi fra le vie della città. Molti angoli di Palermo non fanno un buon odore, provano anzi a respingerti in tutti i modi con la loro inquietante penombra e gli sguardi storti degli abitanti. Eppure questa città possiede il fascino della storia stratificata e del Mediterraneo che ti cattura. É una città di mare, abituata dal tempo dei greci ad essere capitale e centro economico dell'isola. È fatta di viuzze oscure e pochi viali larghi scavati fra le casupole che conducono a piazze dove si affacciano grandi chiese per lo più barocche. Indimenticabili i Quattro Canti, la piazza ottagonale dove si incrociano le due arterie principali (via Maqueda e Via Vittorio Emanuele) e su cui si affacciano i quattro edifici in passato più importanti per la vita di Palermo: lì venivano fatte sia le feste pubbliche che le esecuzioni.
Indimenticabili i Ficus di Piazza marina e dei giardini botanici (che cinque uomini non basterebbero per abbracciarli) e i tristissimi lecci nodosi a bordo strada. Indimenticabile il frastuono dei mercati e il rombo notturno dei motorini sui ciottoli.

È una città che se da una parte ha mantenuto pittoresche tradizioni secolari (come i mercati), dall'altra è stata stuprata dalla speculazione edilizia e dalla noncuranza dei suoi amministratori. Oggi si distende a dismisura fuori dal centro storico, senza un apparente senso urbanistico e architettonico, e collegata da strade perennemente trafficate e una metropolitana che non ho avuto occasione di prendere. La direttrice principale di questa incontrollata edificazione è quella di Via Maqueda, che idealmente congiunge i Quattro Canti allo Stadio Barbera. Me ne rendo conto la mattina che decido di raggiungere Isola delle Femmine, località di mare a pochi chilometri dal mare in direzione Capaci: soltanto uscendo di casa molto presto e servendomi di un autobus aggiuntivo riesco a raggiungere la fermata dell'autobus per Isole delle Femmine, fermata che si trova dalle parti dello stadio e ad occhio non sembrava troppo lontana dal centro per raggiungerla a piedi. Mi sbagliavo, ma ne è valsa la pena perché la destinazione -un piccolo paese di pescatori- ha immediatamente risvegliato in me una profonda quiete interiore e una grande serenità. Davanti al blu cristallino del mare e del cielo terso, e scaldato dal sole di mezzogiorno (un sole per nulla autunnale), mi sono buttato. Ho fatto lunghe bracciate nell'acqua gelida, elettrizzato dalla gioia del momento e ripensando alla nebbia di casa mia. Dopodiché sorpasso nuovamente i pescatori indaffarati con le loro reti e mi dirigo verso le case.


Isola delle femmine è un paese che si trova sul breve tratto di costa che sta di fronte a un isolotto brullo a largo degli scogli, sormontato da una torre oggi diroccata. Sebbene il nome e la presenza di tale torre abbiano dato origine a leggende e dicerie fantasiose (come quella secondo cui la torre dell'isola era un tempo la prigione per le donne dell'isola), sembra in realtà che il nome derivi semplicemente dal buffo processo di italianizzazione di un termine della lingua locale e che la torre facesse parte del sistema costiero di avvistamento per i corsari. Un'altra cosa interessante di Isole delle Femmine è anche il fatto che, da qualche anno a questa parte, lì si trova la sede di AddioPizzo, storica associazione antimafia che sono andato a conoscere.  Attraverso un bando statale o regionale hanno ottenuto di convertire la vecchia casa abbandonata del ferroviere del paese e di farne la loro base. Ora i muri sono stati ri-imbiancati e tappezzati di foto, le porte e le finestre sono colorate, oltre ai di tavoli e ai computer c'è un divano e una cucina, e un terrazzo assolato che dà sulle distese di rotaie e sulle barche dei pescatori. Attraverso un'amica mi sono messo in contatto con Dario, che mi accoglie e mi presenta agli altri impiegati di questa associazione specializzata nella lotta alla pratica del pizzo e nella promozione del consumo critico e consapevole. Il telefono squilla continuamente e l'agenda di Dario si riempie di scritte e di appuntamenti. 

Fra una telefonata e l'altra, mentre aspetto di riprendere il discorso per cui ci siamo incontrati, percepisco l'energia che sta dietro questa battaglia: quella che pulsa entro quei muri, in persone come Dario, che hanno dedicato la propria vita a questa causa, e l'energia che è stata messa finora come testimoniano le storiche foto appese dovunque intorno a me. Alla fine riusciamo a parlarci e a metterci d'accordo: riesco a strappargli la disponibilità a venire a trovarci in primavera per un festival che collaboro a organizzare! Assisto a una riunione interna e, mentre ascolto, penso che mi piacerebbe lavorare in un posto come quello, respirando aria di mare e facendo qualcosa di utile per la mia città. Infine una collaboratrice che lavora per il progetto di “turismo etico” gentilmente mi offre un passaggio in macchina per il centro di Palermo. Parliamo delle gite e dei viaggi di gruppo che da qualche tempo hanno iniziato a organizzare, e rimango entusiasta dell'idea: oltre alla tradizionale visita dei luoghi-simbolo della Sicilia e della storia dell'antimafia, offrono bike tours attraverso l'isola, cicli di seminari e incontri per conoscere le storie più significative del movimento dell'antimafia (come le esperienze di Libera Terra di riconversione di beni confiscati alla mafia in attività “pulite”); il tutto appoggiandosi a strutture, ristoratori e fornitori e compagnie di trasporto pizzo-free, per restituire dignità a questa terra e dare visibilità e sostegno a coloro che stanno lottando per il cambiamento.


La sera del mio quinto e ultimo giorno a Palermo un improvviso nubifragio mi sorprende senza giacca e senza ombrello lontano dall'ostello. Ho appena preso una granita e salutato un amico che ho conosciuto al progetto (ma che in realtà studia a Bologna ed è solo un paio d'anni più indietro di me). Suo padre è anziano e ha vissuto a Palermo fino a 20 anni. Abbiamo avuto la fortuna di averlo come guida per la Cappella Palatina, con tutta probabilità la chiesa più bella che abbia mai visto finora. E' un ambiente piccolo tutto sommato, niente di maestoso, e risale al tempo in cui il Re Ruggero II la fece costruire insieme al Palazzo dei Normanni.
Commissionò un progetto bizantino ad artigiani in buona parte arabi e il risultato è qualcosa di indescrivibile. Guardare i dettagli, fra l'altro realizzati interamente attraverso la tecnica del mosaico, così belli e così piccoli mi ha fatto provare una sensazione simile a quella che provai al liceo quando mi fu spiegato in filosofia uno dei paradossi di Zenone: “non si può giungere all'estremità di uno stadio senza prima aver raggiunto la metà di esso, ma una volta raggiunta la metà si dovrà raggiungere la metà della metà rimanente e così via, senza quindi mai riuscire a raggiungere l'estremità dello stadio”. So che suona esagerato (e ovviamente lo è), ma è un po' come pensare a cosa ci sia oltre all'universo (verso dove si sta espandendo?) ma al contrario; è rendersi conto della sostanziale infinitezza di alcune cose (le stelle nel cielo, i granelli di sabbia in una spiaggia, e i tasselli di azzurro della Cappella Palatina).


Fatto sta che mi ero lasciato tutto questo alle spalle e mi trovavo molto lontano, nei pressi di corso Maqueda, quando sono iniziate a scendere le secchiate di acqua fredda dal cielo già nero. Le strade hanno quasi subito iniziato ad allagarsi e la gente a chiudersi in casa. Sono arrivato zuppo in ostello, mi sono fatto una doccia e ho preparato la valigia per lasciare Palermo all'indomani. Sebbene avessi ancora Monreale e mille altre cose della città da vedere, era tempo di ripartire e dirigersi verso l'altro grande fuoco dell'isola, quello naturalistico, e cioè l'Etna. Le piogge della burrascosa nottata avevano provocato frane che impedivano ai treni per Catania di circolare e ai bus di fare la normale tratta attraverso l'autostrada. Così mi ritrovo a percorrere minuscole stradine di montagna su questo autobus da gita scolastica pieno di persone scombussolate e con la pancia in subbuglio per via di “questa pioggia maledetta”. Mentre io sono felicissimo di attraversare paesini arroccati sulle montagne palermitane (come le Madonie e i Nebrodi) e avvicinarmi con più gradualità e naturalezza all'Etna, il “gigante d'Europa”.


Ad aspettarmi a Belpasso, uno dei paesi ai piedi del vulcano e a pochi chilometri da Catania (che si trova sul mare), c'è Tito. Sono infatti ospite di un paio di famiglie legate dalla scelta di una vita “familiarmente comunitaria” e incentrata sul progetto di trasformazione di un posto magnifico ma abbandonato da molti anni. “Le Tre Finestre” è il nome di questa grande tenuta, dove una volta si estendevano ettari di vigna per la produzione del famoso vino bianco dell'Etna e dove oggi sono cresciuti invece tantissimi ulivi. Ci sono due nuclei di case completamente ristrutturati e un'ex chiesetta senza porta, dove gli adulti delle famiglie si raccolgono ogni mattina prima di dividersi ognuno per le proprie attività quotidiane. Io ho la fortuna di alloggiare in un grande stanzone proprio a fianco della chiesetta. Un bellissimo parquet al centro della sala e alcune finestre sopraelevate regalano all'ambiente un aspetto teatrale ed accogliente.
Resto lì come ospite per quattro notti e ricambio la generosità di Tito, Nella, Manfredi e Fabìola partecipando ai lavori che ci sono da fare in campagna e dando una mano in cucina. Il weekend in cui sono capitato c'è infatti molto da fare in cucina perché sabato è un giorno di festa: è il compleanno di una delle bimbe delle famiglie, e arrivano i parenti stretti di Fabiola e Manfredi. Improvvisamente mi trovo quindi seduto a una grande tavolata a mangiare e a stringere le mani di persone molto accoglienti e calorose, che non mi fanno sentire affatto un pesce fuor d'acqua. Al pranzo di compleanno segue ben presto una cena più “frugale”, dove ci si ritrova di nuovo tutti insieme. Il giorno seguente, domenica, tutti i parenti sono ancora lì, dopo una notte passata sistemati alla bell'e meglio, e partecipano in qualche modo alla vita comunitaria delle Tre Finestre. I ritmi sono lenti, la loro visita non è un toccata-e-fuga-perchè-si-deve-fare ma è una visita in tutta tranquillità, per il piacere di stare insieme. Questo vale soprattutto per i genitori di Manfredi, che hanno contribuito attivamente con l'acquisto del podere e alla ristrutturazione degli edifici, e che sono membri a tutti gli effetti della comunità delle Tre Finestre pur abitando lontani.

Questo tipo di comunità segue le regole delle Comunità dell'Arca, molto diffuse in Francia e ispirate ai valori di convivenza di Lanza del Vasto e di Gandhi. Si tratta di una comunità molto piccola e un po' sui generis rispetto alle grandi comunità del passato o di altre realtà. A parte Tito, che lavora quotidianamente nel carcere di Catania, le altre persone adulte sono occupate interamente dalle attività della comunità: i lavori in campagna, nei laboratori di trasformazione dei prodotti agricoli e delle erbe aromatiche e di lavorazione del cuoio assorbono infatti molto tempo e vorrebbero garantire presto un reddito sufficiente all'autosostentamento. Periodicamente, gli abitanti delle Tre Finestre e i singoli e le famiglie a loro vicine si ritrovano e rinnovano la volontà di proseguire su strade affini e condivise, così come avviene anche a livello nazionale e internazionale (mondiale!).

Alla fine anche la domenica si rivela un giorno di festa: dopo la raccolta comunitaria di qualche sacco di olive per la messa sott'olio e un piatto di pasta saporitissimo, è l'ora per l'ascesa a uno dei crateri dell'Etna. Il vulcano è infatti una distesa paurosa di crateri e lava  delle vecchie eruzioni che gradualmente separa il cratere principale dai primi boschi e dai paesi sottostanti. Per avvicinarsi bisogna però fare curve e salite di strada di montagna, che ben presto lascia il passo a un paesaggio di tipo lunare. Al cratere dove siamo diretti, il più vicino, ci arriviamo praticamente senza mettere piede fuori dall'auto. Troviamo una gran folla di gente in gita domenicale, che si guarda intorno, scavalla crateri spenti e raccoglie souvenir da portare a casa. La cima del cratere principale è lontana e ancora altissima (3343 m). Mi dicono che per arrivarci occorrono almeno sette ore di cammino da lì o 50 € di seggiovia, e purtroppo non possiamo permetterci nessuna delle due cose. Così ci accontentiamo di osservarlo da laggiù, dove ci sentiamo già un po' calati nel mondo infernale dei vulcani (se solo non fosse per i rumori di auto e dei gruppi di turisti che inevitabilmente ci richiama alla realtà).

Passato anche l'ultimo giorno alle Tre Finestre è tempo di prepararsi per il ritorno a casa. Prima del volo ho tempo di vedere qualcosa anche di Catania, così saluto tutti e sfrutto il passaggio mattiniero di Tito. Approdo in Via Etnea, la spina dorsale della città dove convergeranno anche i miei giri a zigzag per il centro storico. Ho modo di attraversare i due mercati principali della città
(quello alimentare-misto e quello specifico del pesce) e bermi una bibita super dissetante allo sciroppo di limone e mandarino a uno dei chioschetti che si trovano fra le bancarelle. Passo davanti all'università, che è una di quelle più attive nel mio ramo di studi (agraria) anche a livello internazionale, e mi dirigo verso il castello. Ho infatti casualmente letto che al suo interno c'è una mostra di Chagall, uno dei miei artisti preferiti. Entro e non trovo quasi nessun altro visitatore, così mi godo un piacevolissimo percorso fra le sue opere e le stanze del piccolo castello.

Infine è tempo di avviarmi, non senza un po' di angoscia, verso il Piazzale Falcone-Borsellino dove ferma l'autobus che mi porterà all'aeroporto di Comiso (vicino alle terre di Montalbano). Destreggiarmi nell'intrico di fermate delle innumerevoli linee private di autotrasporti non è affatto semplice e sono teso perché devo per forza prendere l'unica corsa del pomeriggio. Così resto vigile per 40 minuti buoni, mentre cerco di mangiarmi un fico d'india (che è tuttavia una grande delusione, sia per le invisibili spine che nonostante tutti gli sforzi mi si infilano fra le dita sia per il sapore). Alla fine il bus giusto ferma poco in ritardo al punto che sospettavo essere quello giusto e salgo, scaricando tutta la tensione accumulata sul morbido sedile e incollando il naso al vetro. Anche il resto del ritorno a casa va liscio come l'olio. Mi servo di efficienti trasporti pubblici, che mi portano dall'aeroporto di Pisa fino a Bologna.

Inizio presto a riconoscere accenti e paesaggi familiari e non posso fare a meno di notare le differenze fra questi due mondi (il nord e il sud Italia) che ho in breve tempo attraversato: il costo di una cena al volo; il cielo e la temperatura; i decibel nelle strade. Ma l'ultima di questo mio viaggio, mentre attraverso la stazione di Bologna, mi viene da pensare anche a questo potere illegale e sotterraneo, di cui sempre più spesso si sente parlare in riferimento alle nostre coordinate e che quindi sembra accomunarli in qualcos'altro questi due mondi. Mi ricordo dei processi per mafia che sono attualmente in corso nella mia città e mi viene alla mente un dato che ho sentito dire di recente da Gaetano Alessi, siciliano impegnato da anni contro la mafia al Nord: “in Emilia Romagna il 19% delle imprese è già vittima di pizzo o di usura”. Ed ecco che il sapore in bocca torna agro-dolce, non so più cosa pensare della terra che mi ha accolto in questi ultimi dieci giorni e nemmeno della terra dove sono nato. Allora non faccio più nulla, spengo il cervello, e mi addormento del bel sonno di chi ha vissuto davvero per un po' ed ora è stanco.


Perchè un blog delle anguille?



Il mondo animale è pieno zeppo di sorprendenti abitudini che, in risposta a stimoli biologici e ambientali, rendono strabilianti le esistenze di animali a prima vista insignificanti. Uno di questi è l'anguilla, un pesce serpentiforme comunissimo (in Islanda come in Senegal) le cui imprese sono sconosciute quasi a tutti.

Devi sapere che tutte le anguille nascono nelle profondità del Mar dei Sargassi, al largo dell'Oceano Atlantico. Schiudono dalle uova e si lasciano portare dalle correnti fino alle coste continentali europee o nordafricane. Una volta raggiunta la foce di un fiume, le larve maschili vi si stabiliscono (prediligendo ambienti d'acqua salmastra). Le femmine intraprendono invece un lunghissimo percorso, risalendo fiumi e torrenti dell'entroterra fino a stanziarsi in un qualche punto dove resteranno per diversi anni. Poi un autunno arriverà il momento di percorrere a ritroso -ora molto accresciute di dimensione e mature sessualmente- la stessa strada per raggiungere i propri maschi. Come riescano a ritrovarli non è chiaro, e più sorprendente ancora è l'attraversata che questi buffi pesci (nient' affatto abili nuotatori) si apprestano a fare per raggiungere il fantomatico Mar dei Sargassi e deporvi le uova. Le anguille si preparano meticolosamente per il loro viaggio finale, che le riporterà negli stessi luoghi in cui sono state concepite: perdono il loro colore verdastro e assumono un'argentea lucentezza per mimetizzarsi, sviluppano occhi adatti a vedere attraverso le oscurità oceaniche, accumulano grasso di riserva e il loro metabolismo si adatta a sopravvivere in acqua salata.  Compiuta la riproduzione i genitori muoiono, mentre le piccole larve iniziano un nuovo ciclo lasciandosi trasportare dalle correnti e stanziandosi misteriosamente -solo secondo alcuni- nello stesso punto in cui erano cresciuti i genitori.

Cosa c'entrano le anguille con questo blog? 
Io penso che quest'animale rappresenti una precisa tipologia di uomo, molto simile a come sono fatto io! É un avventuroso migratore, ma non obbligato (come il salmone) bensì un girovago apparentemente senza scopo e senza meta, che per motivi sconosciuti si fermerà in un qualche punto del suo percorso, ma solo provvisoriamente. Come tutti gli animali migratori (compreso l'uomo) -a prescindere da quanto lungo e difficile sia il viaggio- un giorno tornerà a casa, ripercorrendo i luoghi dove è passato molto tempo prima e arrivando nel punto della sua origine. Mi piace pensare che ami molto la sua “acqua natale” e che sia proprio il desiderio di ritornarvi a spingerlo durante tutta la sua titanica attraversata. Inoltre è un animale profondamente istintivo, ascolta i cambiamenti che avvengono dentro e attorno a sé e parte al momento giusto, seguendo i ritmi della vita. Dalle sue abitudini di animale schivo, notturno, solitario e adatto ad ambienti umidi e paludosi, si potrebbe dedurre che sia soltanto un triste e scontroso eremita “misantropo”, una sorta di “Gollum del Signore degli anelli”. Ma io sono convinto che non sia così, che l'anguilla sappia anche essere gioiosa e di ottima compagnia. Sono le sue esigenze “biologiche” a determinarne le abitudini e delineare questo ritratto superficiale, ma osserva la danza sinuosa di un'anguilla in amore (se ti capita) o più semplicemente continua a leggere le righe di questo blog: può essere che ti accorga di avere qualcosa in comune con questa anguilla vagabonda; oppure che le sue storie ti muovano dentro qualche emozione e ti portino lontanissimo, verso il mar dei sargassi per esempio; oppure può anche succedere che il suo originale punto di vista ti faccia notare alcuni aspetti della tua stessa vita quotidiana (a cui magari non avevi mai pensato) e che tu possa trarne addirittura qualcosa di utile.

Non ci sono particolari regole di forma o di contenuto in questo blog. Si tratta di estratti di un diario inesistente, scritti per me stesso e resi pubblici perché possano essere letti da occhi diversi dai miei, che puntino dritti al midollo di queste storie.