martedì 17 settembre 2019

Uganda - Parte III - "Una Finlandia equatoriale"

La zona a sud dell'Uganda è ricoperta di boschi ed è contornata da grandi e piccoli laghi. Non me l'aspettavo, nel mio immaginario non c'era questo lato rigoglioso e acquifero dell'Africa. Mi aspettavo piuttosto delle savane e delle gran distese aride, e invece mi sono trovato davanti una specie di "Finlandia equatoriale".

E' intorno al Queen Elizabeth National Park che inizia questa regione. Siamo infatti nella faglia Albertina della Rift Valley, culla dell'umanità e generatrice di impressionanti vulcani e catene montuose. Già solo a una trentina di chilometri a sud di Fort Portal si trovano una miriade di piccoli laghi di origine craterica: i Crater Lakes legati al vulcano Katwe. Io e Yasmin ci arriviamo a bordo di un auto scassata, guidata dall’ennesimo tassista abusivo. La morfologia del territorio non rende semplici gli spostamenti su strada, dove sono le moto a farla da padrone. Alcuni insediamenti si trovano infatti arroccati sui lembi di terra compresi fra i laghi di montagna, mentre le strade sono sterrate e in certi punti fangose.

I Crater Lakes sono molti (una trentina), ma noi ci dirigiamo verso il Lake Nkuruba, che a detta di alcuni è il più bello. Si trova all'interno di una riserva naturale, che lo circonda tutto intorno. Su nostra richiesta, ci viene concesso di piantare la tenda a pochi passi dall'acqua, dove alcuni giovani occidentali stanno facendo il bagno. Man mano che scende la sera, mentre io combatto per cuocere un po' di riso su un falò, mi sento sempre più "risucchiato" dalla giungla. I suoni che ci circondano sono qualcosa di incredibile... E la sensazione che provo, non appena passata la frustrazione per la mia incapacità scoutistica, è di pura ammirazione per questo habitat primordiale. E' la stessa che provo la mattina dopo una volta in acqua, mentre la foresta si sta svegliando e le scimmie bianche e nere iniziano a lanciarsi da un albero all'altro.


Io in attesa presso una delle poche pompe di benzina della zona, nel mezzo di un mercato in alta quota

Un lago craterico e, sotto, il lago Nkuruba con un abitante

E' invece pomeriggio quando raggiungiamo le porte d'ingresso del Queen Elizabeth National Park, una delle aree protette più famose del paese. Ci accampiamo appena fuori, presso un campeggio situato a riva del grande Kazinga Channel. Ci viene detto che il corso d'acqua è abitato da ippopotami e coccodrilli, ma che non dobbiamo preoccuparci "perché non si avventurano mai fino a quassù". Ecco, di lì a poche ore saremo svegliati proprio da una rumorosa famiglia di ippopotami, fortunatamente senza realizzare di cosa si trattasse.

E' durante la stessa notte, apprendiamo, che 13 leoni vengono avvelenati a morte da alcuni allevatori esasperati dagli attacchi al loro bestiame. Ce lo dice un giovane biologo inglese, da settimane sulle tracce dei leoni presenti nel Parco. Improvvisamente prende il sopravvento in me una sensazione opposta a quella provata il giorno prima sulle rive del lago Nkuruba: una forte rabbia e una schifosa vergogna per chi ha compiuto questo atto sacrilego, nei confronti della creatura forse più rappresentativa di questo luogo primordiale. 

Ma purtroppo non possiamo farci niente, per cui ci tiriamo su e ci prepariamo a iniziare un altro giorno a spasso per questa Finlandia equatoriale. Ad attenderci c’è una buffa guida, navigata e bella in carne. Da lei imparo che le ananas vanno tagliate per il lungo, come si fa per le angurie, dato che la parte più zuccherina si trova al centro del frutto. Ovviamente la prima fetta, tagliata in modo errato e pertanto alquanto insapore, l’avevo offerta a lei…ricevendo in cambio un secco rifiuto e un’offesa per la mia sfrontatezza (prima) e per la mia imbranatezza (poi). 

Il Parco è immenso, rispetto al Parco delle Murchison Falls c’è una densità di animali un po’ minore e meno imbarazzante. Vediamo comunque un po’ di tutto e poi ci dirigiamo a mangiare presso un locale affacciato sulla spiaggia dove giornalmente avviene un raduno di mammiferi d'ogni tipo che neanche il Jova Beach Party. Sulla via d’uscita dal Parco carichiamo il figlio della guida, un ragazzone febbricitante per via della malaria. Ci spiegano che c’è poco da fare al riguardo del problema malaria: ormai sono abituati a conviverci e nessuno -eccetto gli occidentali- fa uso delle profilassi per la malattia, è poco pratico e costoso. Sarà anche per questo che vediamo tante persone appisolate in giro per l’Uganda.

Scatti dalle Murchison Falls e dal Queen Elizabeth National Park



A ovest, nelle foreste di confine con Congo e Rwanda inizia l'habitat dei gorilla beringei (specie a rischio estinzione fino al 2018). Noi la costeggiamo a bordo di un matatu e raggiungiamo Mbarare di sera, dove mangiamo una buona pizza (la prima in Uganda) e alloggiamo vicino alla stazione degli autobus. Poi la mattina seguente ripartiamo procedendo in direzione del Rwanda, fino a raggiungere Kabale. Kabale è piccolina, fondamentalmente una strada con case e negozi ai lati. Ci accorgiamo che ci sono parecchi turisti occidentali in giro. Mentre un senza-tetto dorme a un lato della strada principale, sul cemento: lo sorprendo lasciandogli un pezzo di pane per colazione.

Poi ci attiviamo per raggiungere la nostra destinazione: il Lake Bunyoni. Abbiamo letto di un campeggio su una delle isole al centro del lago e vorremmo accamparci lì con la tenda per i prossimi giorni. Non è cosa facilissima raggiungere il lago, poiché c'è una vera e propria montagna a dividerlo dal paese. Ancora una volta ci affidiamo ai boda-boda, ovvero ai motociclisti che si improvvisano tassisti. Coi nostri zainoni e con il peso di una persona in più, i poveri motorini a 2 tempi se la vedono brutta su per le salite...ma ce la fanno! Ci scaricano in riva al lago, dove aspettano pronti i tassisti abusivi d'acqua, con le loro piccole imbarcazioni colorate di blu e di giallo.

Quando gli diciamo "Grazie ma non ci serve un passaggio, vorremmo raggiungere l'isola in canoa", i traghettatori ridono e ce lo sconsigliano fortemente. Alla fine ci accompagna uno di loro, con la barca a motore. (Effettivamente l'isola era molto lontana e fortunatamente non ci siamo intestarditi). Il campeggio si estende all'intera isola, che non è molto grande. Si respira un'atmosfera stranamente occidentale: le varie aree del campeggio sono debitamente segnalate con dei cartelli, ogni cosa è costruita con cura, prevalentemente usando il legno (dall'edificio centrale con cucina, reception e veranda vista lago, alle compost-toilet in giro per l'isola e ai bungalow costruiti sopra e sotto agli alberi) e in generale tutto è molto tranquillo e pulito. Il mistero dietro a questa atipica isola d'Uganda è presto svelato: è un architetto americano che ha investito in questo progetto.

Tuttavia, ci accorgiamo nei giorni seguenti che in generale tutta l'area intorno al Lake Bunyoni -caratterizzata da coste frastagliate e meticolosi terrazzamenti, degni delle piantagioni di thé asiatiche- tende a distinguersi dall'Uganda vista fino ad ora. Dev'essere l'influenza del vicino Rwanda, ad oggi uno dei paesi più democratici e più sviluppati del continente (a quanto ci dicono le persone che incontriamo). Il lago stesso è un eccezione, essendo l'unico o tra i pochi laghi balneabili (è profondissimo, "biharzia free" e privo di ippopotami e coccodrilli). In giro per le isole e lungo le coste del lago si trovano dei Resort di lusso, che evitiamo come la peste. 


Il Lake Bunyoni con il sole [fonte: https://www.bunyonyi.org] e, sotto, prima della pioggia

Nel pomeriggio abbiamo la sciagurata idea di noleggiare una “tree dugout canoe”, fondamentalmente un tronco scavato all’interno. Pesantissima. Aggiungiamoci che né io né Yasmin siamo dei grandi esperti di canottaggio, ma che abbiamo idee diverse su come pilotarla e che siamo entrambi testardi come dei muli. Il risultato è presto servito: mani sanguinanti, meta assolutamente non raggiunta e un’incazzatura reciproca alle stelle. Paradossalmente, a salvarci è una pioggia torrenziale che ci costringe a ripararci e a tenerci caldo a vicenda dentro a una cabina avvistata vicino alla riva di un’isola. 

Il resto della giornata va decisamente meglio. Ci facciamo un giro sull'isola dove siamo praticamente naufragati e avvistiamo la prima e ultima zebra, e soprattutto il primo struzzo (simbolo nazionale), del nostro viaggio. Poi una volta tornati otteniamo il permesso da parte dello staff di usare la cucina del campeggio per cucinare il nostro cibo, mentre lo cheff e le donne dell’isola sono all’opera con le loro ricette. Il gestore del campeggio ci invita poi a fare uso della biblioteca e a noleggiare un film. Sembra stupido, ma dopo oltre 2 settimane senza tv, potersi guardare “L’ultimo Re di Scozia” è un piacere grandissimo. Purtroppo però siamo ormai alla fine del nostro viaggio. Yasmin e io abbiamo percorso già molta strada, e non siamo neanche troppo stanchi. Ma è ormai tempo di tornare verso la capitale. Lei vuole avere il tempo per salutare alcune delle persone che la hanno accompagnata durante queste settimane di interviste e di ricerca sul campo. 

Così il giorno seguente raggiungiamo nuovamente Mbarare, con un’altra sciagurata idea in mente: prendere un autobus notturno fino a KampalaInutile dire che il mezzo non parte finché anche l’ultimo sedile non viene riempito, se non ti è chiaro il concetto leggi l’episodio Uganda - Parte 3 "Un vecchio bus verso ovest" su questo blog e capirai. Seduto di fianco a noi noto subito un signore un po’ anziano in condizioni abbastanza precarie. Nel corso della notte la sua situazione sembra peggiorare, al punto che mi sento in dovere di fargli prendere qualcuna delle medicine che mi sono rimaste. Lui accetta di buon cuore e poi si addormenta, per poi alzarsi, ringraziare e scendere in qualche parte imprecisata dell’Uganda. Davanti a noi c’è invece il tipico ragazzo che non possiede (o non vuole usare) le cuffiette ma che ha davvero bisogno di ascoltare della musica. Il problema è che possiede una sola canzone, “Buffalo Soldier” di Bob Marley, e che non se ne stanca. D’altronde neanche l’autista ha intenzione di rinunciare alla musica, che viene sparata insieme ai video musicali dallo schermo davanti.

E così, accompagnati dalle sonorità africane di Eddy Kenzo con interferenze jamaicane, e interrotti ogni tanto dai deliri del vecchio morente, ci dirigiamo verso la capitale. Il bus sembra fermarsi in continuazione. E nonostante sia notte, alle fermate c'è comunque gente che vuole vendere qualcosa. Finalmente verso le 5 di mattina arriviamo, sonnolenti, e fuori c’è una pioggia dirompente. Io sono molto confuso perché nessuno si muove, tutti continuano a dormire. Eppure siamo arrivati… Scendo per vedere se siamo effettivamente a Kampala e se c’è qualche mezzo per raggiungere il centro. Lo siamo. Un tizio al riparo di una tettoia mi dice: “Musungu, con la pioggia i boda-boda non lavorano: tutti aspettano che smetta. Altrimenti costa troppo”. Ringrazio e torno sul bus, ma fa caldo e non c’è aossigeno lì dentro. Così convinco Yasmin a prendere un taxi (un uber per la precisione), mentre nessun’altro si muove e io mi sento ancora una volta un’occidentale viziato.

Un paio di giorni dopo siamo di nuovo quasi ad Entebbe, dove il nostro viaggio era cominciato (vedi Uganda – Parte 1. “Entebbe e la mia valigia”). Ci aspetta una notte in aeroporto a Nairobi, in Kenya, e un cambio ad Amsterdam. Poi il freddo Aprile della Svezia, e la vita di tutti i giorni dello studente sotto tesi, ci aspetteranno al varco. Ma prima, a pochi passi dal Lake Victoria, il tassista accosta la macchina e ci propone di scendere. “Un ultimo saluto a questa terra!” dice. Così scendiamo e raggiungiamo la riva del lago. Un gruppo di uomini e di ragazzi del posto è intorno a un fuoco sulla sabbia. Uno di loro, vedendoci lì a guardare lontano, si avvicina a noi. Si rivolge soprattutto a me. E’ palesemente sotto effetto di qualcosa, e così dal nulla mi dice: “You how it is to become a father? Like a resurrection”. 

Con questa immagine in testa lascio l’Uganda. Un paese con una situazione demografica opposta al paese da cui provengo (il 50% della popolazione ha meno di 15 anni). Un paese dove le persone sono povere e non possono godersi le bellezze che la loro terra avrebbe da offrire, perché spesso accessibili soltanto al portafogli occidentale. Un paese accogliente, dove molti sono disperati ma sanno ancora assaporare la vita e ti guarderanno con curiosità. Un paese dove il turismo di massa non è ancora arrivato. Un paese con 40 lingue e un imprecisato numero di religioni e credenze. Un paese che ha visto la guerra civile e che ora vive all’ombra di una dittatura mascherata, ma che non si è affatto spento. Un piccolo paese pieno di cose grandi: le montagne, il Nilo, i laghi, la RIft Valley e la foresta equatoriale. Un paese africano, che già questo basterebbe a giustificare un viaggio se si vuole mettere il naso fuori dal rassicurante orticello di casa e farsi un’idea della parola “diversità”.

Io, Yasmin e le giraffe 

martedì 2 luglio 2019

Uganda - Parte II. "Un vecchio bus verso ovest"

Un vecchio bus senza scritta del capolinea e un sacco di persone al suo interno. Un autista circondato da valigie polverose, incluse le nostre. Poi il rombo del vecchio motore e il macchinoso cambio di marcia. E' cominciato così il nostro viaggio da Karuma a Fort Portal, città secondarie dell'Uganda. Un viaggio come molti altri, eppure in qualche modo speciale.

Un matatus si ferma per il rifornimento di bibite e snacks 
Sin dal principio, le circostanze di questa storia sono state un po' caotiche. Anche se poi si sono raddrizzate un poco. E' iniziato tutto così: per una questione di soldi, veniamo fatti scendere all'improvviso dal nostro mini-van (sì, abbiamo posseduto un mini-van! non nostro ovviamente, ma a noleggio). Il contatto che ci era stato passato da un ranger del Rhino Sanctuary, in grado di fornirci un mini-van e un autista per raggiungere la parte nord-occidentale del paese (quella in cui si trova la maggior parte dei grandi parchi nazionali, dove è obbligatorio possedere un veicolo per accedervi), si è dimostrato essere un bastardo. Infatti ci ordina telefonicamente di scendere in strada immediatamente dopo la prima tappa (le Murchison Falls), non appena noi rifiutiamo i suoi "nuovi termini" riguardanti il costo totale del pacchetto. A noi questa nuova cifra sembra una vera e propria truffa, per cui raccogliamo tutti i nostri possedimenti e iniziamo a metterci in cammino, nel bel mezzo del nulla. 

Fortunatamente, l'autista e il passeggero/guida che abbiamo caricato hanno buon cuore e tornano indietro per accompagnarci almeno alla fermata più vicina. Non appena salutati e rimessi gli zaini in spalla, tempo meno di 8 secondi, eccoci a bordo di un nuovo mezzo: il vecchio bus senza capolinea. Il "conductor" e alcuni passeggeri dell'autobus sono infatti corsi in strada verso di noi appena notatici. Ci prendono gli zaini, ci mettono 2 biglietti in mano e ci scortano verso un paio di posti fatti liberare per noi. Non ci è dato scegliere o parlare, tutto si svolge fulmineamente.

L'autobus è sporchino e ricoperto di polvere ocra-rossastra. All'interno, tutto ha un vecchio aspetto ed è in condizioni precarie, con molti dei sedili consumati o mezzi stracciati. In più, fatico a capacitarmi del carico di valigie e persone al suo interno. Tutto sommato vi ripongo poca fiducia, specialmente guardando alla strada disastrata di fronte a noi. Eppure siamo qua. Con il calore del motore che ci brucia i piedi e i nostri culi che fanno su e giù peggio che in una montagna russa.

Fuori c'è uno spettacolo di animali, veicoli improvvisati e umani intenti nelle attività più disparate (o addormentati nell'ombra). Sono certo che sarebbe anche un magnifico concerto di rumori, ma il rombo del motore copre ogni cosa. Intorno a me ognuno è seduto appiccicato all'altro. Non molti parlano, ma sembra di essere tutti parte di una stessa famiglia.

Strada ugandese attraverso una savana
Un insegnante, alcuni ragazzi di una scuola di turismo locale e noi presso le Murchison Falls
Yasmin e io siamo seduti davanti, proprio dietro all'autista. C'è anche un uomo abbastanza giovane che condivide il sedile con noi. Dapprima non dice niente. Ma dopo un po' lo vedo sorridere in direzione della mega piuma che ho attaccato al mio cappello. Allora con una mossa glielo provo sulla sua testa. La gente intorno a noi ride e noi iniziamo a parlare, mentre Yasmin pian piano si addormenta.

Viene fuori che lui è un agricoltore e ha 4 figli, i quali vanno tutti a scuola (cosa di cui lui è molto orgoglioso). Mi dice che deve lavorare molto per poterceli mandare, e che il suo campo sta a 3 ore di distanza, sebbene Sam provenga in realtà da una zona fertile. "Posso fare più soldi lì. Coltivo mais e fagioli e poi li vendo all'Azienda". Gli chiedo quale azienda, e lui mi spiega che è una multinazionale straniera che ordina e compra prodotti da agricoltori come lui. Provvede anche fornire semi, pesticidi e fertilizzanti.

Il fatto dell multinazionale mi turba un po'. Quando gli dico quel che penso (cioè che potrebbe anche considerare altre opzioni, per non sottomettersi alla multinazionale e praticare un tipo di agricoltura sostenibile), mi sento saccente e idealista. Le mie obiezioni mi paiono così vuote rispetto al suo bisogno di mantenere 4 figli...Eppure lui sembra comprendere le ragioni di quel che dico. Non ribatte granché, ma i suoi occhi sembrano conoscere queste cose. Ad ogni modo non voglio andare oltre con questa discussione, e ricordandomi del mio cappello che è ancora sulla sua testa non posso che sorridergli.

Sam e il mio cappello 
Circa ogni 30 minuti l'autobus si ferma in un villaggio, dove stormi di persone aspettano pronti: vendono cose da bere e da mangiare ai passeggeri attraverso i finestrini. Non appena ci vedono, iniziano a insistere più veemente, urlando con eccitazione: "Musungu! Musungu!" (Bianco! Bianco!). Questa volta compriamo una bibita molto intensa e rinfrescante allo zenzero. E in qualche modo, dopo 50 o 60 km di strade bucate, raggiungiamo Masindi.

Da Masindi, un paesone molto povero, non siamo lontani dalla riserva naturale di Budongo, che è la destinazione di Yasmin per via della sua ricerca sulla gestione delle aree forestali. Sulla strada per la riserva passiamo vicino ai terreni infiniti di una multi-nazionale indiana, forse la stessa di cui parlava Sam. Infine raggiungiamo la casupola di legno all'ingresso della foresta, da cui emerge un guardiano che ci lascia passare. La cosa che noto subito è la quantità impressionante di farfalle, e poi il fresco che c'è nella foresta.

Il centro di ricerca è un insieme di casette bianche al centro della riserva. Sin dal 1990, qui si studiano gli scimpanzé e gli impatti della gestione forestale sulla biodiversità. Il gruppo di ricerca è piccolino e si vede che non sono molto abituati a ricevere ospiti, così rimaniamo il più possibile discreti. E il giorno seguente siamo pronti a proseguire il nostro viaggio, stavolta in direzione di Hoima.

Un babbuino cerca di introdursi nel centro di ricerca
Il matatus ci lascia nel mezzo di una grande piazza con un mercato, limitata in ogni lato da edifici alti con dei bei tetti e un sacco di "matatus" e di "boda-boda" parcheggiati (furgoncini e moto-taxi) al centro. Noi scappiamo via dalla calca di tassisti e venditori ambulanti, che ci parlano tutti insieme. Non appena chiusa la porta dell'ostello, lasciandoci tutto il rumore alle spalle, ci appoggiamo sul letto e per 2 ore non riusciamo ad alzarci dalla stanchezza.

Poi usciamo nuovamente in strada, mentre la notte è calata. Le notti africane sono di un nero scurissimo e rimpiazzano il giorno MOLTO in fretta. Anche in vere e proprie città come Hoima, si direbbe che l'elettricità non sia cosa comune. In alcune strade, dei fuochi all'interno di barili metallici fanno luce al posto dei lampioni. Ci sono persone e c'è della musica nell'aria, ma proviamo comunque una sensazione di disagio e allora aumentiamo istintivamente il passo.

Siamo diretti verso un posto dove mangiare di cui cui ho letto sulla guida. Quando arriviamo, ci accorgiamo di essere gli unici clienti e 2 donne ci accolgono con entusiasmo. Vicino al bancone c'è un tavolino con una grossa pentola contenente una zuppa di arachidi, da cui spuntano delle teste di pesce. Mangiamo di gusto, evitando però le teste, e spendiamo in tutto circa 7 o 8 € (30 000 shilling ugandesi).

Il giorno seguente torniamo nella stessa strada per fare colazione. In Uganda, alla mattina si mangiano più o meno le stesse cose della cena: riso, fagioli, platano o patate bollite e all'occorrenza della carne. Ma va bene, abbiamo di fronte a noi tanta strada e ci serve dell'energia. Dall'area delle Murchison Falls, siamo infatti diretti ancora più a Ovest verso le Rwenzori Mountains, le quali dividono il paese dal Congo.

Da Hoima, i matatus accompagnano fino a là per qualche dollaro. Così saliamo a bordo di uno di questi. Il matatus è ancora mezzo vuoto, l'autista non è pervenuto, così aspettiamo. Dopo 40 minuti siamo ancora fermi, essendoci alcuni posti ancora liberi. E nell'attesa, un tizio dall'aspetto stravagante attacca bottone con me.

Vuole convincermi di chiamarsi "Jerry the killer", di avere 40 fratelli e di essere un soldato. Non un militare dell'esercito, ma un "Revolutionary", un militante di guerriglie. Ha combattuto in Sud-Sudan, "dove le persone erano animali impazziti, non umani". Dice di essere famoso nella zona e che le donne lo adorano molto. Nel frattempo non posso smettere di guardare i suoi occhi rossi, quasi fuori dalle orbita, e il suo modo drammatico di usare il corpo mentre mi parla. In tutta onestà ha abbastanza l'aria di un tossico dipendente, e alcuni passanti scherzano su di lui, ma nel frattempo Jerry inizia a darsi da fare per noi.

Jerry the killer
Visto infatti che dopo che altri 20 minuti  di attesa le nostre anime di occidentali iniziavano a essere impazienti, Jerry ci introduce ad alcuni tassisti privati e inizia a contrattare sul prezzo per noi.  Dal momento in cui abbiamo considerato l'idea di andare in taxi, l'interesse generale sembra spostarsi su di noi e una folla di gente (anche non tassisti) inizia a circondarci. Sembra quasi che la decisione riguardo a chi debba aggiudicarsi questa somma di denaro appartenga alla comunità, dato che all'improvviso ognuno suggerisce persone diverse e lancia le proprie ragioni. Alla fine seguiamo quello che sembra essere il volere della gente e ci facciamo accompagnare da un ragazzone verso la sua macchina.

Ci vergogniamo un po' di aver confermato il cliché dell'occidentale "ricco" e viziato, che può permettersi di prendere un taxi anche per fare una distanza lunga. Ma già dopo un po' di strada, non ci pentiamo più. Siamo anzi molto grati di essere a bordo di un auto spaziosa e con gli ammortizzatori che funzionano.

Così arriviamo a Fort Portal, l'ultima città prima delle montagne. Insieme a Kasese, la città è un punto di partenza per molti dei sentieri migliori nel paese. Le Rwenzori Mountains sono infatti una catena montuosa importante, dove la cima più alta (The Mount Stanley) raggiunge i 5109 metri. L'area montuosa è protetta da un Parco Nazionale, all'interno del quale è purtroppo molto costoso rimanere (40€ dollari al giorno). Per questo motivo siamo costretti a rinunciare all'idea di fare un trekking vero e proprio, ma optiamo per un giro più tranquillo sulle pendici delle montagne non lontano dalla città.

Già lì, in una zona fondamentalmente di alta collina, lo scenario è totalmente diverso da quanto visto prima. Ad accoglierci c'è una foschia autunnale, posata sopra il verde tropicale di lunghissime piantagioni di caffè. Salendo man mano di quota, insieme a una guida che fa parte di un'associazione che promuove il turismo responsabile, passiamo vicino alle ultime case del paese e vediamo brillare i tetti in lamiera delle case di sotto. Le pendici scoscese intorno a noi sono tutte coltivate, principalmente a patate e fagioli. Seppur rade, vediamo case sparse un po' dappertutto e vediamo anche la scuola sul fondovalle.

Panorama in direzione di Fort Portal


Il ragazzo che ci fa da guida ci racconta quanto creda nell'importanza della scuola, non soltanto per le nuove generazioni ma per tutta la comunità. Lui stesso insegna volontariamente nella scuola per trasferire le conoscenze di base agli adulti del suo paese. Tuttavia ci fa capire abbastanza chiaramente che le risorse a disposizione della scuola non sono sufficienti. Anche i proventi della sua associazione, che vengono devoluti al funzionamento della scuola, sono pochi. Infatti il turismo sulle Rwenzori Mountains, che avrebbe in realtà un grande potenziale, non si è mai risollevato veramente dopo le guerre civili in Congo ed Uganda. Questa zona viene percepita come pericolosa ed è tagliata fuori dai principali circuiti turistici.

Noi continuiamo il nostro cammino e infine raggiungiamo le porte del Parco Nazionale. Probabilmente nessuno ci vedrebbe entrare, ma è meglio fermarci lì e scongiurare ogni problema. Inoltre siamo già molto contenti perché, proprio lì a due passi dal confine, abbiamo incontrato il  nostro primo camaleonte. Un animale preistorico e pacato, più grosso di quanto immaginassi. E soprattutto non multi-color o megasuper-transformer...Durante il nostro incanto davanti a lui (o lei), durato almeno 5 minuti, il camaleonte è rimasto lo stesso, così come lo vedete in foto. Eppure ci è voluto un locale per scovarlo, perché gli occhi appannati di due occidentali non l'avevano notato!

Il Jackson's chameleon dell'Africa orientale, esemplare di maschio
L'inizio del Rwenzory National Park


Un qualche extra:

  
Show improvvisato per noi, vicino all'albero sacro di Nakaima a Mubende (https://www.ugandasafaristours.com/blog/nakayima-tree-tree-mystery.html)

 
Strada di campagna vicino al Lake Wamala vista da un boda-boda


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giovedì 7 marzo 2019

Uganda - Parte I. "Entebbe e la mia valigia"

Un grande mercato. Questa la prima impressione che ho dell'aeroporto di Entebbe. E' sera tardi, ma in molti brulicano nel grande atrio con al centro la cinghia per il ritiro valigie. Ai lati vedo negozi che sembrano di un'altra epoca. Aspetto la mia valigia, ma non arriva. Man mano le vedo diminuire una dopo una, finché non rimangono le ultime due a girare a vuoto. Ma la mia non c'è. Mi dicono di non preoccuparmi e di lasciare un indirizzo e un numero di telefono. Faccio così, ma sono preoccupato che la valigia se la sia presa qualcuno mentre io ero trattenuto per il controllo documenti. In ogni caso non ho molta scelta ormai, il mercato si è svuotato e Yasmin mi sta aspettando da più di un'ora.

La vedo attraverso il vetro...si è fatta le treccine ("braides") come usa lì. Ci abbracciamo dopo più di un mese e mezzo e le spiego cosa è successo, ma il tassista e Bridget (amica e collaboratrice di Yasmin) hanno giustamente voglia di darsi una mossa dopo tutta questa attesa. Così partiamo.
Dal taxi per Kampala (la capitale), noto subito una cosa: il nero intensissimo della notte. Non ci sono lampioni, e le uniche luci provengono dalle abitazioni che incontriamo sulla strada. Man mano noto quanta gente in realtà ci sia in giro, nel buio più pesto. Provo un sentimento strano...all'improvviso ho le sue mani fra le mie e mi trovo in Africa.

Con l'avvicinarsi della città si amplificano i rumori e inizia il traffico. Dopo circa un'ora arriviamo all'hotel. La zona è quella dell'università di Kampala, che si chiama Makerere. E' piuttosto su e giù come quartiere e ci sono molte stradine buie in terra battuta. Quasi ad ogni incrocio ci sono gruppi di motociclisti che aspettano. Sono i boda-boda, moto-tassisti. Man mano mi accorgerò di quante motociclette girano per il paese. E' qualcosa di incredibile...Mi vien detto che i boda-boda offrono il modo migliore per girare in città: vanno veloci, incuranti del traffico e spesso anche delle regole, e costano poco.

Makere University - Kampala

I boda-boda aspettano all'ombra
Nei tre giorni che seguono nessuno sa dirmi nulla riguardo alla mia valigia. Il quarto giorno mi dicono che sono riusciti a rintracciarla, in qualche modo è rimasta ad Amsterdam durante lo scalo. Ma dovrebbe arrivare la sera stessa o al limite il giorno seguente! Così decidiamo di cercare da dormire a Entebbe e guardarci un po' la città nell'attesa della valigia.

Entebbe è una città di circa 70 000 abitanti, a meno di un'ora da Kampala. Durante il periodo coloniale inglese era stata scelta come centro politico del protettorato. Il nome stesso "ntebe" significa "seggio" in Lugandese, uno dei dialetti più parlati in Uganda. Rispetto a Kampala, Entebbe è molto più tranquilla e più "vuota". Si vede di più l'influenza occidentale nell'architettura e nelle infrastrutture.

Una delle prime cose in cui ci imbattiamo, dopo aver lasciato le nostre cose, è un campo da golf. Colpiti dal vedere famiglie ugandesi alle prese con le mazze e i mini-van, mi avvicino di qualche metro e faccio per scattare una foto. Neanche un minuto dopo, un addetto del golf club si avvicina minaccioso pretendendo che lo seguiamo presso l'ufficio e che paghiamo una multa o non so che per essere entrati nella loro proprietà. Fortunatamente, dopo una discussione di almeno 5 minuti e la cancellazione davanti ai suoi occhi della foto, riusciamo a proseguire (senza multa). 

Yasmin a spasso fra le ville di Entebbe
Campagna intorno ad Entebbe
Ma l'attrazione principale di Entebbe è senza dubbio il Lake Victoria, il lago più grande d'Africa. Camminiamo scalzi sulle rive del lago, che ricadono in parte all'interno del giardino botanico della città. E' il tramonto e ci sono centinaia di uccelli che volteggiano intorno a un'isolotto poco al largo, sono pronti per andarsene a dormire. Invece noi, volendo proseguire lungo la riva, usciamo inconsapevolmente dal giardino botanico e ci ritroviamo all'interno di una mini-baraccopoli semi-buia. Ci sono baracche in lamiera, gente che cucina all'aperto con fuoco alimentato a carbone e file di panni stesi da un albero all'altro. Curiosamente nessuno sembra fare caso a noi, che risaliamo il villaggio in cerca della civilizzazione e dell'asfalto. Mi sembra incredibile che esista questo ecosistema di povertà, nascosto ma a due passi dalle villone e dagli uffici con vista lago.

Finito di mangiare (ovviamente pesce) in un posto per turisti, ma vuoto visto la bassa stagione, ci dirigiamo verso l'aeroporto in boda-boda. In prossimità dell'aeroporto c'è un posto di blocco, oltre il quale i boia-boda non sono ammessi (non lo sapevamo). Dopo qualche minuto di discussione vien fuori che se noi diamo "qualcosina", tipo 10 dollari, alla guardia allora potremmo passare. Ma invece decidiamo di salutare il moto-tassista e la guardia e proseguiamo a piedi. Se non che, un tassista, vistoci camminare, insiste gentilmente per offrirci un passaggio gratuito fino al terminal, che accettiamo di buon cuore.

L'aeroporto di Entebbe, ad oggi l'unico internazionale del paese, è diventato famoso per via di una vicenda incredibile successa nel 1976 che è conosciuta come Operazione Entebbe. E' infatti verso questo aeroporto che fu dirottato un volo della Air France per mano del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Il volo era partito da Tel Aviv, aveva fatto scalo ad Atene ed era diretto a Parigi. A bordo c'erano 248 passeggeri più l'equipaggio (12 persone), e una buona parte dei passeggeri erano israeliani. L'intento degli attivisti palestinesi, che furono supportati anche attivisti tedeschi presenti durante l'azione, era di portare l'attenzione mediatica sulla situazione palestinese e di richiedere che vari compagni di lotta al tempo imprigionati venissero scagionati in cambio della liberazione degli ostaggi. L'aeroporto di Entebbe venne probabilmente scelto per via della presenza di Amin al governo del paese, il quale si dimostrò simpatizzante nei confronti dell'FPLP. L'aeroporto venne trasformato in un fortino militare, dove gli attivisti e i militari ugandesi tennero prigionieri i passeggeri per svariati giorni. Il governo israeliano, trovatosi in una situazione molto difficile, decise di non cedere al ricatto e invece preparò un'azione militare per la liberazione degli ostaggi e l'uccisione dei sequestratori. Per conoscere l'esito della storia, consiglio di vedere il bellissimo film "7 days in Entebbe", uscito nel 2018!

Daniel Brühl nei panni di un'attivista tedesco delle Revolutionäre Zellen, coinvolte nel dirottamento del volo Air France 139 

Idi Amin, presidente dell'Uganda dal '71 al '79. Per un approfondimento su di lui e sull'Uganda di quegli anni,  il film "L'ultimo re di Scozia" è molto consigliato

Ritornando a noi, sono le 22 passate quando riusciamo a entrare in aeroporto (in condizioni molto meno drammatiche di quelle del '76). Ci tocca aspettare parecchio, ma a un certo punto mi fanno entrare in un ufficio. Mi dicono: "We have your bag!". E appoggiano sul banco una valigia tutta avvolta con della plastica verdastra. A me questo già mi pare strano, ma poi vedo il biglietto di imbarco e leggo: "Gonzales". E' chiaro che questa non è la mia valigia, e lo capiscono anche loro. Così mi fanno uscire, e ci tocca aspettare ancora, un po' meno speranzosi di prima. Ma in realtà, mezzora dopo, quando mi richiamano dentro, riconosco subito la mia valigia. Ce l'abbiamo fatta! Tra un po' mi vien da piangere, ma non perché ci fosse chissà che lì dentro. Semplicemente perché mi sento di nuovo equipaggiato e ho l'impressione che finalmente questa avventura in Uganda può cominciare per davvero!


Il Lake Victoria al crepuscolo




sabato 2 febbraio 2019

Prima di un viaggio in Uganda

Può capitare nella vita di dover scegliere fra un mese di routine e un mese di permanenza in qualche luogo sperduto del mondo, ad esempio l'Uganda. Non è una scelta facile. Richiede un costoso biglietto aereo, vaccinazioni, visto e passaporto, molto coraggio e un po' di pazzia.  Coraggio e pazzia perchè il tortuoso percorso per arrivare in Uganda ti richiede determinazione, sebbene tu non si sappia cosa aspettarti. Devi volere ardentemente qualcosa che non conosci e che riesci a malapena a immaginare. Perciò devi essere un po' pazzo, o una mezza anguilla se vogliamo metterla diversamente...  

L'idea inizia a farsi largo nella mia testa dopo aver ricevuto la notizia che la mia ragazza andrà in Uganda per scrivere la sua tesi. Viene da lei, quando spontaneamente mi chiede se ho intenzione o meno di andarla a trovare mentre sarà lì. Io cado dalle nuvole, non mi sono mai posto la domanda… In tutta onestà, ancora non so dove sia l'Uganda (esattamente)...Nella mia testa è qualcosa di irraggiungibile, come se fosse fuori-mappa. Geograficamente, temporalmente ed economicamente. Eppure da quel momento l'idea, o meglio, la curiosità inizia ad attecchire. 

Il presidente Museveni
Nelle settimane seguenti comincio a crearmi una vaga cultura personale riguardo all'Uganda e al Centrafica. Scopro che molti fatti curiosi si concentrano intorno a quest'area. Per esempio, che la rete elettrica copre meno del 5% delle famiglie ugandesi e che il biogas (il mio tema di tesi) è un argomento che scotta anche là. Non tanto come soluzione "green", ma come soluzione "cheap". Scopro che l'Uganda ha il tasso di natalità più alto del mondo. Scopro che c'è un dittatore (Mouseveni) da oltre trent'anni e che si sono combattute delle guerre solo pochi anni fa, con dinamiche simili alla più famosa guerra in Ruanda. 

Quando accompagno Yasmin in aeroporto non so ancora se la rivedrò prima del suo ritorno, né quando sarà il suo ritorno. Lei è un misto di eccitazione e di disperata tristezza. Mi dirà più avanti che solo lì, alla fila per il controllo sicurezza, si è resa conto che stava veramente partendo per l'Uganda. Io invece me ne torno a casa, ma non sono pronto a ricominciare la solita routine senza di lei. Sarebbe troppo strano e troppo doloroso, mi dico. Decido di fare una pazzia…voglio fare autostop dalla Svezia all’Italia. “L’avventura mi terrà occupato” mi dico. Così la mattina dopo, sotto una bufera di neve, mi trovo a bordo dell’autostrada un po’ tremante e col pollice alzato. Tuttavia questa è un’avventura che racconterò più avanti.

Nei giorni e nelle settimane successive, le sue notizie dall’Uganda mi arrivano a bocconi. Da una parte c'è la marea di cose da sbrigare per la sua tesi, dall'altra c'è l'inesistenza del wifi e la mancanza di elettricità. Ma soprattutto, c’è un continente e mezzo a dividerci. Dalla biblioteca dell’università non riesco a immaginarmi come sia stare lì in Uganda. Non comprendo la gravità che possono avere gli effetti collaterali di un farmaco anti-malaria come il Lariam, soprattutto su una ragazza bianca sola fra le strade di Kampala. Non realizzo cosa voglia dire spostarsi alla mattina coi mezzi di fortuna locali per raggiungere il villaggio della foresta dove svolgere le interviste. Non ne ho idea e così continuo a mandare notizie dalla “normalissima Europa”.  Ogni sera ricevo un piccolo update su whatsapp, contornato da molte smileys, ma mi sembra così poco…Non ci sono mezzi, né tempi, sufficienti per poterci chiamare.  

Intanto il mistero e la tentazione di vedere l’Uganda con i miei occhi non mi lasciano, anzi si accrescono. Infine la mattina del 23 marzo -dopo una notte di esitazioni, ripensamenti e di rigiramenti nel letto- io prenoto. Un biglietto da 600€ comprato su un sito dal nome e dall'aspetto per nulla rassicurante. Ma quello è il mio biglietto! Non si fa più dietro-front!!!

La cosa positiva dei voli per l'Uganda è che non sono soggetti a oscillazioni di domanda -dato che una domanda non c'è- e quindi i prezzi restano più o meno uguali fino all'ultimo (per quel che ho potuto vedere). Il problema è che mi restano poco più di due settimane di tempo prima del volo. Pochissimo. Ho da sbrigare alcune faccende pratiche, in primis delle costosissime vaccinazioni. Per l’Uganda è obbligatorio avere la vaccinazione per febbre gialla, epatite A, epatite B, mentre vaccinazioni per rabbia, colera e pillole anti-malaria sono molto consigliate. Io non guardo a spese su questo, ed -eccetto rabbia- le faccio tutte. Il mio corpo ne risente un po’ durante pasqua e pasquetta, costringendomi a letto per un paio di giorni, ma nulla di più. Così come per i vaccini, riesco a ottenere anche il visto in modo abbastanza spedito, non appena sborso i quattrini (circa 50€). Tutte queste spese mi scoraggiano un po’, ancora una volta mi sale il dubbio di star facendo una cazzata. Ma ormai non si torna indietro e in più il momento è quasi arrivato...

Come mi capita prima di ogni viaggio, alla vigilia della partenza non dormo. Ho un volo alla mattina presto da Stoccolma e devo finire di fare lo zaino. Pochi vestiti, attrezzatura da campeggio, un paio di stivali di gomma, una guida, medicine, 2 spray anti-zanzare e parecchi contanti. Non ho molto altro con me. La giacca decido di non portarla, mi prendo giusto un k-way. 

All’alba del 10 Aprile 2018, quando esco di casa per raggiungere la fermata dell’autobus, mi maledico per non aver preso una giacca. Ma stringo i denti e saltello un po’. Poi finalmente sono sull’aereo che mi porterà in Uganda. Appartiene alla compagnia olandese KLM, ed è immenso. Intorno a me vedo sia persone di colore (probabilmente ugandesi) sia occidentali. C’è un gruppone di studente americani che prenderanno parte a qualche progetto di volontariato. C’è una signora italiana diretta verso il Ruanda, dove lavora nell’ambito della cooperazione. C’è una coppia di anziani inglesi che sembrano in tutto e per tutto dei missionari un po’ bigotti.

Alla sera, quando finalmente atterriamo all’aeroporto di Entebbe e ci lasciano uscire dall’aereo, percepisco subito una sensazione di “appiciccaticcio” e di aria calda. C’è anche un odore particolare nell’aria, che non ho mai sentito. Come leggendomi nella mente, un ragazzo con cui ho attaccato bottone esclama guardandomi: “Ecco l’odore di Africa! Non lo trovi da nessun’altra parte” o qualcosa del genere. 

Dopo mezzora di fila per il controllo documenti, entro ufficialmente in Uganda. Sul mio passaporto c’è scritto che ho 22 giorni di tempo nel paese. E’ ora di trovare l’uscita e di riabbracciare Yasmin, mi manca solo la valigia. Ah giusto la valigia…
…mi informano che “Purtroppo la sua valigia non è pervenuta”. Più avanti scoprirò che è rimasta ad Amsterdam, ma è questo è già l’inizio della prossima storia.

Aeroporto di Entebbe


martedì 8 gennaio 2019

Marocco


E' iniziato per gioco, come una battuta fra amici in una serata di inverno. Poi in qualche modo l'idea è rimasta lì, nelle nostre teste, e si è concretizzata qualche mese dopo quando abbiamo prenotato il volo. Bologna-Siviglia, in modo da poi arrivare in Marocco in nave "come i veri marocchini". Infatti la nostra idea è stata da subito di vedere il Marocco (da Nord a Sud) utilizzando i mezzi pubblici locali e adattandoci il più possibile allo stile di vita marocchino. Non è che avessimo molto di più in programma, né qualche cosa di prenotato eccetto l'ostello per la prima notte; eppure alla fine tutto è andato bene. Eccovi la storia!

Leonardo (detto il "gov"), Michele (detto "MadMax"), Francesco (detto "Vacca") e me. Con tutti e questi 3 soggetti sono stato amico per molti anni, ma non abbiamo mai viaggiato insieme (eccetto gite di classe o weekend in montagna ecc). Un vero viaggio mai. Ma non ho alcuna preoccupazione a riguardo, anzi sono veramente contento che si stia concretizzando. In effetti bisogna essere dei pazzi per accettare una proposta di road trip in Marocco senza macchina né programma ad Agosto. Fatto sta che, all'alba del giorno della partenza, ci dirigiamo verso l'aeroporto accompagnati dalla mamma di Vacca e poi ci imbarchiamo. Ci siamo, sta per succedere, ma a dividerci dal Marocco c'è la terra intorno a Siviglia (la quale, come scopriamo grazie a un tassista, non è sul mare!!) e il mare stesso. Passiamo il primo giorno a girovagare per le afose vie della città e la sera in un locale dove suonano (e ballano) flamenco. La città e l'atmosfera non sono male, ma allo stesso tempo non c'entrano molto con il Marocco. C'abbiamo proprio un chiodo fisso in testa: vogliamo arrivare in Marocco il prima possibile. Così il giorno dopo prendiamo un bus fino ad Algeciras, dalla quale ci si può imbarcare per Tangeri città. Una volta sul traghetto e fatto il controllo passaporti, parte l'adrenalina per davvero. All'improvviso, senza nemmeno aver messo piede a terra, ci accorgiamo del cambio di cultura intorno a noi. Sul traghetto ci sono soltanto famiglie marocchine e lo spagnolo è già sparito.

Lo sbarco a Tangeri è trionfale. Non soltanto a livello paesaggistico -perché Tangeri è veramente bella- ma anche emotivo. Siamo arrivati, immediatamente avvolti dal caldo del sole di mezzogiorno che batte sul porto quasi deserto e poi gradualmente risucchiati dal chaos della città man mano che saliamo verso il centro. Sì, "saliamo", perché Tangeri è tutta su e giù, costruita fra gli scogli e i promontori che danno sul mare. E questo mi riporta a quello che forse è stato il momento più bello della nostra permanenza a Tangeri, avvenuto nel pomeriggio dello stesso giorno del nostro arrivo o del giorno seguente. Durante un'esplorazione al di fuori del Suk, ovvero zona antica e centrale della città, capitiamo in un posto curioso. Ci troviamo al tramonto su una distesa di rocce più o meno lisce che dà su un pezzo di città sottostante e sul mare. Nella roccia sono state scavate decine di tombe e ci sono degli innamorati seduti e alcune famiglie a fare il picnic. Noi da lì scendiamo di poco seguendo una strada residenziale ed entriamo in un caffè sensazionale, costruito su 7 o 8 piani a cavallo della scogliera. Lì è anche dove assaggiamo il primo té marocchino. All'apparenza sembra più un insalata in tazza che un the, ma al gusto -signori- al gusto è dolcissimo ma è "tanta roba". Per il resto, Tangeri avrebbe tanto da offrire ma è anche molto lasciata andare. Camminando un po' fuori dal centro si percepisce dall'architettura di certi palazzi l'importanza storica e diplomatica della città, ed entrando in certi caffé in stile parigino si respira ancora l'importanza culturale che Tangeri doveva avere a suo tempo. Infatti la città è sempre stata internazionale per via della sua posizione geografica e del suo porto. Al cinema troviamo una programmazione molto interessante e approfittiamo per guardarci un buffo film egiziano ("Alì, la capra e Ibrahim").

Noi e il té marocchino
Eppure ci dicono che oggi Tangeri viene tagliata fuori dai circuiti turistici tradizionali perché pericolosa. In effetti vediamo molta povertà e molti mendicanti in giro per il centro della città. Non a caso è qui che ci capitano alcune delle principali disavventure del viaggio, sebbene in buona parte cercate da noi stessi. In particolare ci succede che l'ennesimo tipo, di nome Rachid, ci approccia durante una nostra peregrinazione in cerca di un posto dove mangiare. Promessoci di portarci in un posto tipicamente marocchino e poco costoso, acconsentiamo di seguirlo, anche perché non ne possiamo più di cercare un posto dove mangiare, e così iniziamo ad attraversare mezza città al suo seguito. Attraversiamo piazzette, scorciatoie e mercati coperti che probabilmente non avemmo mai trovato da soli. Arrivati al ristorante, che ovviamente si rivela appartenere a qualche suo parente, ci viene proposto un menù completo a circa 10 o 15€, che decidiamo di prendere. Il cibo non è male e alla fine ci viene chiesto il prezzo concordato all'inizio. Il guaio, però, è che nei 2 giorni successivi non ci scaveremo più Rachid di torno. Infatti prima di andarcene, grazie al mago degli affari Francesco, ci accordiamo per andare a passare la notte seguente sulla terrazza di Rachid. Il mito della notte passata "sui tetti", sotto al cielo stellato della notte marocchina, ci ha accompagnato fin dall'inizio e non vogliamo farci perdere l'occasione di risparmiare sui 7 o 8 € euro dell'ostello. Così il giorno dopo ci ritroviamo con Rachid per lasciare gli zaini sul terrazzo, ma finiamo per mangiare lo stesso cibo nello stesso posto del giorno prima, sebbene non vogliamo. Eppure il peggio deve ancora arrivare...Una volta pronti per andare a dormire torniamo alla casa, dove in realtà non abita Rachid ma una coppia di giovani poverissimi. Casa loro è monolocale al secondo o terzo piano con un cucinino e un bagno senza acqua né gabinetto, ma semplicemente un buco collegato a chissà dove. Il terrazzo è degno della casa, sporco e con tanto di mamma e cagnolini allevati in un angolo dello stesso, proprio ai nostri piedi. La notte si rivela abbastanza disastrosa in termini di ore dormite. Non per un motivo soltanto, ma per una serie di eventi in successione. Prima di tutto sono l'agitazione, o forse solo il senso di inquietudine provocati dal luogo, ad accompagnarci prima di prendere sonno. E' in questo stato che, dopo un po', inizio a preoccuparmi per il passaporto e per parte dei miei soldi lasciati nello zaino. Mi metto a frugare fra le mie cose mentre gli altri si sono ormai addormentati. Sebbene non ricordi bene dove li abbia messi, mi pare proprio che siano spariti. Leo, che dorme di fianco a me, si sveglia e poi anche gli altri. Cerco ancora un po' ma, visto che né i soldi né i documenti sembrano saltare fuori, decido di scendere e andare a parlare con i 2 inquilini. Sentitomi scendere si alzano dal letto anche loro e salgono su in terrazza, ripetendo che "non può essere, non può essere, non è possibile" eccetera eccetera. Alla fine, cercato un altro po' con la luce, viene fuori che è ancora tutto nello zaino, in una taschina che mi era sfuggita. Il sollievo conseguente, e le meritate imprecazioni che ricevo, ben presto lasciano spazio a un sonno rilassato. A quell'ora della notte, si sente ancora un certo baccano e una musica come di festa africana, con canti e tamburi. Per quanto mi riguarda la stanchezza ha ancora la meglio sui tamburi, ma non sul Muezzin... Già dalle 4 di mattina, nelle città marocchine, riecheggia il richiamo alla preghiera, che si ripete circa ogni ora e viene amplificato dagli altoparlanti. Non immagini la potenza e l'insistenza di questa voce -che in un certo senso sta cantando ma molto lamentosamente- specialmente se ti trovi a dormire all'aperto non distante da una moschea. A chiudere il quadretto sinfonico, pure i cagnolini di fianco a noi si mettono ad abbaiare e a litigare fra loro. Uno riesce perfino a scappare dalla gabbia e saltare sopra al sacco a pelo di MadMax. Da quella notte, decidiamo che possiamo rinunciare all'idea di "dormire sui tetti del Marocco", o per lo meno iniziamo ad apprezzare maggiormente gli ostelli.
Tangeri e l'oceano

Postazione letto su un tetto di Tangeri
Il proseguimento del viaggio è una discesa nemmeno molto graduale verso i climi e i paesaggi subsahariani. Infatti, già arrivati a Fes, la temperatura si assesta sui 40° e la vegetazione stenta a crescere. Ma prima di dirigerci lì optiamo per due deviazioni. La prima verso l'oceano a sud di Tangeri, per vedere i graffiti e le spiagge di Asilah. Sebbene constatiamo l'esistenza di entrambi, vicissitudini con la popolazione locale e una nebbia da pianura padana complicano le nostre semplici intenzioni. Così che ci ritroviamo sul taxi scassato e abusivo del ritorno a mani abbastanza vuote. Tutti ma non MadMax...

Atti osceni ad Asilah
La seconda deviazione è invece verso le montagne dove si trova la città blu di Chefchauen. Capitale turistica del nord e, come appuriamo in breve tempo giudicando dalle offerte che riceviamo, capitale marocchina della coltivazione di hashish. La posizione, i colori e "l'atmosfera" che caratterizzano Chefchauen la rendono appetibile a molti backpackers e viaggiatori, che affollano anche il nostro ostello. In particolare Vacca stringe amicizia con un argentino 50enne plus. Dettoci di essere un famoso scrittore proviamo a cercarlo su google, ma l'unico risultato relativo al suo nome è un truffatore scappato per non pagare le tasse. Incontriamo di sfuggita anche qualche altro soggetto interessante ma ci manca il tempo per approfondire queste conoscenze. Abbiamo una lunga strada davanti a noi e quindi ci fermiamo soltanto una notte. Prima di arrivare a Marrakesh, vogliamo fare sosta anche a Fes, Meknes e Rabat.

Chefchauen, la città blu, vista dalle montagne circostanti
L'arrivo a Fes, la sera seguente in bus, è uno shock. Dopo le strade devastate per arrivare, un manto liscio annuncia la città. Sollevando lo sguardo non si riconosce più il Marocco, ma sembra di stare in qualche nuovo quartiere di Milano. Alla sera le strade sono vuote e larghissime, qualcosa di inaspettato e spettrale. Ma poi tutto torna. Questa non è la vera Fes, bensì "Nuova Fes". Sede degli uffici e dei benestanti. Per arrivare a Fes vecchia occorre prendere un taxi e farsi accompagnare a una delle porte d'ingresso della città. Così facciamo e ci avventuriamo nella medina alla ricerca del nostro ostello. La ricerca si rivela difficile dato che Google Maps si ritrova solo una volta su 10 fra i meandri di Fes, mentre per le restanti 9 il puntino blu della nostra posizione vaga nel vuoto o fra strade che non esistono. Arriviamo a destinazione seguendo un gruppetto di bimbi di strada, che in cambio vogliono qualche dirham. Di Fes dicono che sia la città più rappresentativa ma anche più pericolosa del Marocco. Girando prima di giorno, fra le zone povere intorno alle concerie e verso il "castello" sulla collina di fronte alla città, e poi alla sera, mi rendo conto che c'è del vero in quell'affermazione. Eppure è solo una sensazione, perché in realtà non ci capita nulla di pericoloso o di spiacevole. L'unica cosa è che ci viene negato l'ingresso a ogni moschea e perfino alle strade adiacenti alle moschee dove ci rechiamo. "Gli occidentali non sono benvenuti in moschea e non sono ammessi in questa parte della città durante le ore di preghiera" ci viene ripetuto. Fino all'ultimo non capiamo se è una vera e propria regola, ma ci adeguiamo ad essa. Comunque ci sono altre cose da fare, principalmente camminare. Un pomeriggio incontriamo due tedesche, con cui condividiamo la nostra unica birra marocchina (l'alcohol è vietato dal codice mussulmano e quasi introvabile in Marocco). Ce la beviamo nel terrazzo con piscina di un hotel affacciato dalla parte sbagliata per il tramonto, ma la gratificazione è grande lo stesso.

Una delle porte della medina di Fes
Conceria a Fes. Filtro: lente d'occhiale da sole di Vacca
Meknes e Rabat non ci lasciano entusiasti. Entrambe centri politici, l'una oggi e l'altra in passato, ma poco vive e non così interessanti da vedere. Eccetto alcune eccezioni: la città romana, la "Pompei" del Marocco, a pochi chilometri da Meknes; la città alta di Rabat, affacciata sul porto dove si trovavano le locande frequentate dai pirati e malfattori di Salè; le rovine di Chellah, luogo sacro ora abitato soltanto da cicogne e giardinieri. Ci muoviamo in fretta, approfittando dell'unica tratta ferroviaria del paese Rabat-Casablanca-Marrakesh.

Chellah (Rabat)
Meknès antica

Sceso dal treno, in taxi verso un hotel, Marrakesh e il suo traffico mi spaventano. E' quasi notte, ma la città non dorme e tutti sembrano essere per strada diretti da qualche parte. Mi guardo intorno mentre l'autista improvvisa una sosta presso una solitaria pompa della benzina nel mezzo dell'arteria stradale verso il centro. Moto, pedoni, animali, carretti... Potrebbe essere India, ma invece è Marocco.
La medina è chiusa al traffico, le strade sono troppo strette, ma le moto girano lo stesso. Una piazza gigantesca chiamata Jamaa-El-Fnaa è il punto di incontro della città. Storicamente piazza del mercato, oggi piazza del turismo e pertanto affollata di bancarelle, taxi parcheggiati, musicisti berberi e addomesticatori di serpenti. Ci si può trovare di tutto in piazza Jamaa-El-Fnaa. Di tutto tranne che un po' di tranquillità. Per trovare quella bisogna cercare altrove. Una zona tranquilla, seppur centrale, è quella intorno al Palazzo Bahia. Un'altra è nei pressi della vecchia moschea di Ibn Yusuf.  Altrimenti, fuori dalla città in direzione delle montagne.

Strada nei dintorni della moschea di Ibn Yusuf
Palace de la Bahia (Marrakesh)
I Monti Atlas, con le vette più alte del Nord Africa, non sono lontani. Separano Marrakesh dalla regione desertica a confine con l'Algeria e sono abitate dai berberi, originari abitanti del Marocco prima della sua islamizzazione. Villaggi di argilla mimetizzati a cavallo delle ripide scarpate e dei terrazzamenti coltivati. Fitti boschi mediterranei alternati a enormi valli pietrose. E  alla fine del paese, in prossimità di Ouarzazate e del confine algerino, la sabbia. Prima sospesa per aria, portata dal vento, e poi man mano depositata su ogni superficie, sulle ultime case e sugli ultimi cactus prima del deserto. Anche se a dire il vero la maggioranza dei deserti del Marocco non è sabbiosa, ma "pietrosa". Deserti diversi da come ce li immaginiamo. Accomunati soltanto dal sole e dalla mancanza d'acqua, ma più simili a Canyon e valli di polvere rossiccia. Ma noi optiamo per la sabbia. Un furgoncino da 9 persone guidato da Mohamed, smilzo sessantenne di poche parole seppur allegro, ci porta ai confini del paese in circa due giorni di viaggio. Il cielo stellato sopra il tetto dell'albergo di montagna dove ci fermiamo resta forse il ricordo più emozionate. Un cielo notturno di tale nitidezza non l'ho mai visto prima, e non sarà lo stesso nemmeno la sera dopo dall'oasi nel deserto. Non so se sia la sabbia portata dal vento, le nuvole sopra di noi o soltanto la presenza degli altri turisti convogliati all'oasi, ma quando ci stendiamo a guardare in su...la magia è finita. Le stelle non brillano e il sole dell'alba è pallido e incolore. Prima di poterci accorgere di essere nel deserto del Sahara, ci dicono che è ora di uscirne, o poi farà troppo caldo. Così risaliamo in groppa ai dromedari e ci ri-incamminiamo, nuovamente diretti verso Marrakesh.

Oasi ricavata grazie alla raccolta di acqua piovana 
Dromedari in attesa presso l'ultima città prima del deserto (Merzouga)
In città fa parecchio caldo. Un pomeriggio mi sento la febbre e il mal di testa, e vorrei trovare un angolo di verde dove stendermi un po', ma non è possibile. Invece capitiamo in quella che sembra essere la zona più povera di Marrakesh, intorno a Bab Debbagh. Percorriamo la via dove sono rimaste le ultime concerie della città. Una lunga strada sporca e puzzolente. Tutti stanno in strada o "in negozio", vendendo ogni genere di cose per pochi cent. Come i ghiaccioli scaduti che accettiamo di comprare. Alcuni hanno brutte facce e aspettano agli angoli come spacciatori. Ma poco più avanti scorgo un murales colorato che dà tutto un altro tono alla via. Risalendo verso il centro la via prende le sembianze della medina e si confonde con le altre strade. 

Murales a Marrakesh
Di ritorno dal deserto siamo divisi dal dubbio: possiamo vedere un po' più montagne, tentando la scalata del monte Toubkal, o fare un ultimo saluto all'oceano. Optiamo per l'oceano e ci dirigiamo verso Essaouira. Ci arriviamo con un taxi scassato, che ci scarica all'ingresso della porta principale della città. Il cambiamento di atmosfera e di temperatura è immediato. Non lo vediamo, ma non c'è dubbio che siamo sul mare. Entriamo nella medina, che è piccolina ma molto bella. Lasciamo gli zaini e torniamo subito indietro, perché abbiamo notato un posto dove mangiare dentro il mercato del pesce. Funziona così: prima fai un giro per le bancarelle e ti scegli il pesce che vuoi mangiare, poi quelli del ristorante te lo puliscono e te lo grigliano praticamente in faccia. Il tavolo dove ci fanno accomodare infatti è affacciato tramite una finestra-ingresso sulle griglie. Un fumo e un profumo pazzesco. 
Altra zona interessante della città è il porto, dove inizia un altro mercato e dove si respira di nuovo aria intrisa di pesce. Oltre al pesce, si respirano anni e anni di storia. E' ben conservata Essaouira, con i suoi torrioni, muraglioni e carruggi scuri. L'unico problema è il vento. Il nostro programma di imparare a surfare non può concretizzarsi, non ce le danno le tavole. Nessuno si azzarda a nuotare con quelle onde. Optiamo per una camminata sulla spiaggia, che si rivela un'impresa disperata. Mai fatto così tanta fatica a camminare.

Porto di Essaouira (sopra e sotto)

Dopo la seconda notte torniamo a Marrakesh. Rimaniamo in città un paio di giorni, fino a che non è ora di tornare. L'aeroporto Menara di Marrakesh è un blocco di cemento di quelli che ti aspetti di trovare a Dubai. L'entrata moderna e gli interni lussuosi stonano con l'immagine decadente che ci siamo costruiti nelle 3 settimane trascorse. Ci prendono le impronte digitali e ci timbrano il visto d'uscita. Davanti a noi resta solo un'ultima notte a Madrid, prima del volo per Bologna nel primo pomeriggio. Decidiamo di non prenotare un letto, ma di passare la notte in giro. Iniziamo da El Tigro, dove ordinare un cocktail o una birra include un vassoio di tapas e stuzzichini. I vasi di Mojito che ci portano quella sera sono una manna dal cielo dopo le 3 settimane mussulmane (e quindi semi-astemie) che abbiamo passato. Il guerriero Mad Max ha una febbre da cavallo ma non si rassegna a cercarsi un ostello dove risanare e ci segue con passo trasandato. D'altronde è l'ultima sera dell'intero viaggio, come potrebbe? Passiamo da Plaza Mayor e da Puerta del Sol, ma non c'è molta gente in giro. Finiamo in un altro locale a bere, ma a un certo punto ci dicono che sono in chiusura. E' così che iniziamo a cercare un prato dove sdraiarci. E' calata la notte e fa freddo. Troviamo un posticino nella zona del palazzo reale ma io non riesco a dormire per più di una o due ore. Mi sveglio alle prime luci del mattino e approfitto per fare un ultimo giro. La città si sta svegliando, con i joggers mattinieri e i lavoratori che fanno pausa caffè prima di entrare in metro. Provo una sensazione rassicurante a essere di nuovo in Europa. Poi ordino dei churros che mi lasciano un po' deluso, e mi incammino per raggiungere nuovamente gli altri. Arrivo in tempo per godermi la scena degli spruzzini di irrigazione che innaffiano i miei compagni di viaggio, strappandoli da chissà quali sogni. In qualche ora siamo seduti sull'aereo di ritorno. Seguo i profili della costa e le creste delle montagne, finché non perdo l'orientamento. Ogni pianura mi sembra già Bologna, ma ci vuole molto di più ad arrivare. E' la magia del nostro pianeta e della geografia.

Ultima notte a Madrid