domenica 12 gennaio 2020

"Lunga vita al cevapi - Roadtrip nei balcani". Parte I: Bosnia e Croazia

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I Balcani. Come suggerisce il nome di derivazione turca, terra di montagne. Terra di confini: crocevia fra l'oriente e l'occidente da una parte; groviglio di lingue, monete e religioni diverse dall'altra. Terra di povertà, malvivenza e arretratezza, nell'immaginario comune. Terra triste (di guerre e storie feroci), ma allo stesso tempo terra zingara e follemente libera e felice. Terra snobbata e sconosciuta. Eppure Europa, seriamente dietro l'angolo.

Partiamo a inizio agosto per il nostro IperBalkanTour. Siamo in tre, a bordo di una Suzuki Switft: io, Enrico detto Enne e Francesco detto Vacca. Abbiamo compresso nel nostro "programma di viaggio" mille cose diverse e 4000 km di strada da fare, pur avendo poco più di 10 giorni di tempo. Il nostro programma di viaggio è scritto su un pezzo di cartone che ci portiamo con noi: è una linea colorata, che man mano si riempirà dei nomi delle città e delle persone incontrate; l'itinerario in realtà è in parte pre-determinato dagli ostelli e dagli air bnb che abbiamo prenotato pochi giorni prima (e un po' a caso).

Graffiti di Sarajevo, prima meta di questo viaggio

Da sinistra N, io e Vacca
La prima tappa è la Slovenia, quel cantone italo-austriaco che si trova già all'interno della penisola balcanica pur essendo così diverso: alpino, pulito, ordinato. In realtà io me la vedo soltanto dal finestrino, di passaggio, perché raggiungo i 2 miei compagni di viaggio (Enrico detto Enne e Francesco detto Vacca) direttamente in Croazia, perdendomi il pernottamento a Lubiana e la deviazione nelle montagne slovene alla ricerca del "famoso" ospedale partigiano (nascosto fra i boschi e le rocce per rimanere invisibile ai raid aerei tedeschi della seconda guerra mondiale).

Ci incontriamo in prossimità del traghetto per Cres, un' isola del nord della Croazia, dove facciamo il biglietto e ci imbarchiamo con anche le macchine. Oltre a noi ci sono Elena, Chiara e Alek, che hanno saggiamente deciso di iniziare la loro vacanza croata in compagnia di 3 uomini vissuti come noi. L'attraversata dura circa mezzoretta, meno del tempo che in seguito impieghiamo per raggiungere la casa sperduta che abbiamo prenotato. Quando arriviamo, l'euforia prende il sopravvento perché il posto e la casa sono davvero carini. Andiamo subito a buttarci in mare, resistendo al freddo dell'acqua e alle punte dei sassi sotto ai piedi (dopo 10 giorni di mare del Salento queste cose si notano immediatamente). Però, immergendo la testa e nuotando ad occhi aperti, lo spettacolo è meraviglioso: il blu dei fondali è accecante, mentre la sensazione tonificante e di purezza che dà l'acqua gelida sulla pelle è indescrivibile. Alla sera un forte temporale si abbatte sulla nostra casetta, dove ci ripariamo a giocare a macchiavelli e a rimpinzarci in perfetto clima da rifugio alpino.

Quando ci svegliamo i fulmini e le nuvole scure se ne sono andate, ma è rimasto un simpaticissimo vento croato ad agitare la mattinata. Ci spostiamo con le macchine e arriviamo a Lubenice, paesino arroccato su una scogliera che dà a picco sul mare. In poco più di tre quarti d'ora l'abbiamo già girato  tutto e decidiamo di ripararci dalle folate di vento entrando al “Sheep breeding museum”, unico museo del paese. Ci accoglie una signora mingherlina molto simpatica, che ci invita a iniziare la visita. Vecchie fotografie e brevi paragrafetti in inglese ci introducono a questa arte secolare che è l'allevamento delle pecore. Come oggi avviene quasi dovunque, anche a Cres i pascoli e i pastori stanno scomparendo, e con loro le tradizioni basate sui frutti di questa attività. Cattura particolarmente il nostro interesse un video artigianale che riprende una vecchia signora ben piazzata ad armeggiare con strumenti altrettanto artigianali per ottenere la tipica forma di formaggio di pecora di Cres, formaggio che con nostro grande dispiacere non abbiamo modo di assaggiare. Infatti subito dopo ci dirigiamo a piedi verso il mare.

Lubenice (Croaziainfo.it)

Un sentiero a tratti ben battuto e a tratti molto pietroso attraversa la macchia e discende la scogliera. Impieghiamo un'ora buona per percorrerlo tutto e raggiungere la spiaggia. Quando arriviamo, capiamo che ne è valsa la pena: la spiaggia, anche questa di sassolini, è lì tutta quasi per noi e il mare è ancora migliore del giorno prima. Da un lato della spiaggia ci sono delle rocce verticali (dalle quali ci si può tuffare e andare in esplorazione con la maschera) e, letteralmente fra gli ultimi alberi del bosco e il mare, c'è anche una vecchia casa di pescatori con gli scuri colorati. Con nostra grande sorpresa, una coppia smacchina un po' con un paio i chiavi e ci entra dentro, lasciandovi i propri zaini. A quanto pare air bnb è arrivata fino a lì, a un'ora di scarpate dal paesino senza alimentari di un'isola della Croazia... (Eppure quando notiamo i kayak che spuntano dalla cantina e la griglia con il tavolino in giardino quella che proviamo è pura invidia!!).

Un'altra spiaggia da vedere -a detta della signora del museo- è a un paio d'ore di cammino da lì.  A quanto pare, ogni giorno verso le 17 in una grotta raggiungibile solo a nuoto da lì, si verifica un fenomeno di luci e colori per il quale val la pena portarsi dietro la maschera. Così nel primo pomeriggio riprendiamo il cammino attraverso la macchia per raggiungere il posto entro le 17. Le grotte effettivamente sono belle, ed è un'emozione1 inoltrarsi in apnea negli anfratti completamente bui e ghiacciati per raggiungere la grande “sala” nascosta, illuminata soltanto da pochi raggi di luce che fuoriescono dalle feritoie nella roccia. Però per sfortuna o per altri motivi, il misterioso fenomeno  non si rivela ai nostri occhi.

Il ritorno alle macchine è molto barcollante, ma è premiato da un tramonto arancione che non scorderò mai e da un giro di Karlovačko freddissime nell'unico chiosco del paese. Prendiamo con noi (e shockiamo un po', con la nostra espansività) una ragazza austriaca in cerca di un passaggio.  Quella sera, purtroppo già l'ultima in Croazia, troviamo pure l'energia per uscire e farci un giro a Cres città, il centro principale dell'isola. Guidati dal ritmo incalzante di una musica lontana e di forte impronta balcanica, scendiamo fino alla piazza centrale, che è ricavata fra una zona di porto e la città vecchia.

Scatti dall'isola di Cres, nei pressi di Lubenice

La mattina dopo, a malincuore, ci separiamo. Grazie alla fortuna sfacciata che ci accompagnerà per tutto il viaggio, siamo gli ultimi della lunga fila di macchine a essere imbarcati sul traghetto per l'isola adiacente a Cres (Krk). L'isola di Krk, a prima vista meno brulla delle vicine Cres e Pag, è collegata alla terra ferma grazie a un ponte (a pagamento ma solo in entrata, e che quindi noi sfruttiamo gratuitamente). Tornati così sul continente, iniziamo la nostra discesa verso sud.

Percorriamo buona parte della costa Croata e deviamo verso l'entro terra soltanto all'altezza dei Laghi di Plitvice, dove facciamo tappa. Il salasso del biglietto (quasi 20 € per gli studenti) e il bagno di folla che ci accoglie rovinano lo spettacolo naturale che ci troviamo davanti. Con il muso lungo di chi sente di aver preso una mezza fregatura, ci avviamo per le passerelle di legno e non manchiamo di sfruttare le navette e i battelli che vengono messe a disposizione dei visitatori. In effetti il Parco è veramente immenso e ben curato. I giochi d'acqua e i colori degli alberi varrebbero il costo del biglietto forse (no ma che sto à dì? i parchi non si pagano ecchè c...), ma il giorno (una domenica) e il periodo li abbiamo sicuramente sbagliati. Poco prima della “chiusura dei cancelli” e di ritornare alla macchina, mi riprometto di tornarci a gennaio la prossima volta e di trovare il modo per farla alle guardie. 


Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice (foto: unconventionaltour.net)

Guidando guidando inizia a calare la notte e la camera nell'ostello della gioventù che abbiamo prenotato in una delle prime città bosniache dopo il confine (Jajce), mi sembra non arrivare mai. Attraversiamo zone di montagna e vallate immense e incontaminate. Una in particolare -dove avremmo scioccamente voluto trovare un posto per mangiare- è degna delle praterie americane che si vedono nei film western, di quelle dove vivevano le mandrie di bisonti e gli indiani giravano a cavallo. Chilometri e chilometri dopo, nel primo paese che incontriamo, mangiamo il primo "cevapi" della nostra vita. Fino al confine con la Romania, le insegne delle “cevapierie” ci perseguiteranno, ma noi non avremo più il coraggio di mangiarne altri. E dire che è un piatto buono da mangiare... Eppure il senso pesantezza e di untuosità che questo piatto è in grado di evocare in noi sarà più forte. Fatto sta che, da quel momento, il cevapi diventa per noi il valore economico di riferimento indiscusso. Utilissimo per chi non mastica molto i marchi bosniaci e i dinari serbi.

A mezzanotte arriviamo finalmente a Jajce e ci sistemiamo. Dopo un po' di meritato wifi, siamo tutti e tre nel mondo dei sogni. Io però mi sveglio presto e approfitto per farmi un giro nella città. Le strade sono ancora deserte e arrivo con facilità alla parte vecchia, che è lì tutta per me nella sua decadenza e nel fascino medievale che emana ancora. Nel punto più alto si trova il castello, che però trovo chiuso "per lavori di restauro" (di cui non si vede traccia dall'esterno). Tutto intorno si sviluppa a cono il centro storico. Mi colpisce soprattutto una chiesa cristiana, di cui oggi sopravvive soltanto lo scheletro e il campanile. Non c'è più il tetto e nemmeno porte e finestre, mentre un folto manto di erba e di muschio è cresciuto al posto del pavimento.

Chiesa scoperchiata a Jajce
Intorno alla collina del castello si estendono altre colline (proprio come a Sarajevo), dove si stagliano tantissime case bianche coi tetti rossi e i minareti appuntiti. Tornando all'ostello, sul lungo fiume, vedo che finalmente la città si sta svegliando: davanti ai pochi chioschi di souvenir compare la merce in esposizione, le strade iniziano a riempirsi di macchine e i primi vecchietti si sono seduti ai tavoli dei bar. Anche i miei compagni si sono svegliati, e così impacchettiamo tutto e scendiamo per la “colazione”. Fra virgolette perché, mentre noi mandiamo giù a fatica i biscotti e la frutta che ci sono rimasti, un altro gruppo di ragazzi prepara la sua di colazione: in piedi intorno al fornello, aspettano visibilmente affamati che una sorta di brodino di carne sia pronto.

Alle 11 del quinto giorno facciamo il nostro ingresso trionfante a Sarajevo. Senza rendercene conto percorriamo tutta la Sniper alley (il viale dei cecchini), simbolo dell'assedio della città, durato dal '92 fino alla fine del '95. Oggi è un viale talmente tanto trafficato, che si ha altro a cui pensare. Per fare una brutta battuta: oggi si rischia la pelle in altro modo, sulla Sniper alley. Con fatica raggiungiamo un parcheggio coperto che crediamo essere vicino al nostro ostello. In realtà si rivela essere vicino alla reception dell'ostello, mentre le camere che ci rifilano si trovano a più di 20 minuti a piedi da lì, in cima a una salita ripidissima. Quando arriviamo, la scena che ci si presenta davanti è una di quelle dei film di Kusturica. Due baracche ospitano le camere e due cucini dell'anteguerra (con la bombola del gas bella in vista e una vecchia stufa a scaldare l'ambiente), mentre alcuni tavoli da sagra costituiscono lo sala da pranzo all'aperto e in compagnia di un bel gruppetto di galline e di vecchi che guardano storto. 


Lo spazio comune del nostro ostello a Sarajevo

Quartiere dei fabbri e dei ramini a Sarajevo
Nonostante questo spettacolo cerchiamo di prenderla sul ridere e, cucinando una "pasta con tonno" senza olio e senza padella, ci immedesimiamo molto con il personaggio trash di BelloFigo, pensando che dovremmo esserci noi nel video mica lui. Se non altro ci caliamo subito nello stile della città, che si rivela molto trash, sporchina, un po' antica un po' moderna, intellettuale, un po' pazza e un po' triste, ma interessante in ogni suo angolo. Diversa da ogni altra città vista finora. Non è un caso che Sarajevo venga definita la “Gerusalemme d'Europa” o la “Porta d'oriente”: qua l'occidente convive caoticamente con i bazar, le moschee e tutto ciò che la dominazione turca ha lasciato in eredità. Ognistradina sprizza di vita e ti travolge nel suo vortice di strani rumori e grossi mezzi sfreccianti a pochi centimetri dai marciapiedi strettissimi e sconnessi. Fa uno strano effetto Sarajevo, con le case decadenti e colorate del centro e l'aria bizzarra delle persone che la popolano. A me mi conquista subito. 

Decidiamo di dedicare il pomeriggio al centro storico. Ci spostiamo a piedi, passando per i principali punti d'interesse (alcuni molto turistici). Uno dei più interessanti è secondo me il cimitero mussulmano, composto da lapidi bianchissime e sottili su cui si trovano in rilievo i nomi arabi dei defunti. Da lassù si ha anche una bellissima vista sui sobborghi della città. Entriamo folgorati nella Casa Svrzo, una volta appartenente a una famiglia della nobiltà ottomana e oggi aperta al pubblico come casa-museo. Attraversiamo il bazar e ci rimpinziamo di dolci e bevande calde a lato della moschea più antica della città (spendendo forse 2 euro in tutto).

Dopodiché una bellissima ma molto "nebulosa" serata al Kino Bosna, locale vintage ricavato da un cinema dismesso ma ben conservato, dove una volta a settimana si esibiscono musicisti di Sevdah: la tradizionale musica romantica e malinconica della Bosnia. In realtà noi non siamo molto malinconici quella sera e approfittiamo dell'incontro con altri giovani viaggiatori (e dei buoni prezzi della birra) per sbronzarci un po'. Il ritorno all'ostello è una mini odissea indimenticabile: a una trasgressiva pisciatina di gruppo da un ponticello e a un'allucinato trip sui salici piangenti, segue un'inaspettata tappa storica nel normalissimo sito in cui fu ucciso Francesco Ferdinando nel '14 e una disperata realizzazione che i nostri bancomat non funzionano più che la salita verso il letto non finisce mai.

Cortile della moschea di Sarajevo
Un cimitero di Sarajevo
La mattina seguente abbiamo la lucidità di comprendere che siamo a Sarajevo e non possiamo starcene a letto, abbiamo ancora tutti i luoghi della guerra da vedere. Ritiriamo la macchina dal parcheggio e torniamo al viale dei cecchini, Ulica Zmaja in bosniaco. Lentamente, palazzo dopo palazzo, il viale viene risanato e sta tornando alla normalità. Negli anni '90 però questa era un punto clue. O per lo meno è diventato un simbolo dell'assedio serbo, visto che era soprattutto lì, nella zona fra il museo nazionale e l'hotel Holiday, che cadevano civili sotto i colpi dei cecchini appostati. Quelli che cadevano non potevano farne a meno di spostarsi, per andare a fare un po' di spesa o per rifiuto di quella situazione di prigionia.

Parallelo al viale dei cecchini si stende un altro viale, si chiama Viale Vilsonovo, e per la città è sempre stato un simbolo opposto: con i suoi tigli e la romanticità del lungo fiume, è stato il punto di incontro degli innamorati e delle famiglie. Per tanti anni ha simboleggiato la quotidianità e la tranquillità della vita, ma a un certo punto -per 5 lunghi anni- non è stato più accessibile. Tutto questo lo impariamo un po' da una guida molto speciale ("Scoprire i Balcani. Storie, luoghi e itinerari dell'Europa di mezzo" - CIERRE Edizioni), un po' dal singolare Museo della Storia di Sarajevo.

Il museo, nella sua disorganizzazione e nel palazzo stesso dal quale è ricavato, contiene l'essenza del '900 della Bosnia e di Sarajevo, che viene ripercorso soprattutto tramite fotografie e oggetti vari. Da lì ci spostiamo al Tunnel Museum, che invece è fuori Sarajevo e serviva a collegare l'aeroporto (dove arrivano gli aiuti umanitari) al centro-città. Una ricostruzione di un tratto del tunnel originale e altre testimonianze di quegli anni ci fanno calare di persona in quello che doveva essere il conflitto balcanico a Sarajevo.

Tornati in macchina discutiamo delle dinamiche che hanno portato alla guerra e di come questa si sia sviluppata, ma più ne parliamo più ci sembrano intricate le vicende di quegli anni. E ci lasciamo alle spalle Sarajevo. Sebbene la città e gli incontri che facciamo ci spingerebbero a restare di più, abbiamo la pazza idea di raggiungere Belgrado in giornata. Così, ancora una volta, eccoci montare in macchina, impostare il vecchio navigatore di Enne (il quale non solo va riavviato dopo ogni spegnimento del motore, ma a quanto pare non è mai stato aggiornato e si perde facilmente) e lasciarci trasportare dal rombo della Suzuki. Abbiamo ancora tanta strada davanti a noi e l'avventura è appena iniziata!

Il Tunnel Museum
La ricostruzione della città