lunedì 16 marzo 2020

Road Trip nei Balcani - Parte II. "Caccia alla Turbofolk in Serbia, Romania e Ungheria"

Il confine fra Bosnia e Serbia è un ponte sul grande fiume Drina. Da una parte e dall'altra del ponte stanno le 2 dogane. Ricordo la strana sensazione che provo nel guidare sul tratto in mezzo, il confine stesso, concettualmente una "terra di nessuno". Quasi da subito le campagne e i villaggi serbi mi inquietano un po' con la loro regolarità e piattezza infinita. Nelle poche persone che incontriamo sulla strada notiamo volti dai tratti più marcati e dai colori più scuri. 

Dopo Slovenia, Croazia e Bosnia (leggi qui il racconto) siamo ora entrati nel quarto paese del nostro roadtrip: la Serbia. Ma a questo giro non ci fermiamo, tiriamo dritto fino alle porte di Belgrado. Eccetto che per una sosta-bagno nell'unica pensione/hotel di un paesino della campagna serba, dove iniziamo già ad assaggiare un certo gusto transilvanico nell'arredamento. Quando raggiungiamo la capitale è ormai l'ora del tramonto e l'arrivo è molto meno traumatico rispetto alla mattina precedente a Sarajevo. Infatti a Belgrado le strade, i fiumi, le case e qualsiasi altra cosa sono belle larghe e spaziose. Parcheggiamo comodamente nella via che conduce al nostro ostello, ricavato al terzo o quarto piano di uno degli innumerevoli palazzi. Così a pelle e senza nemmeno essere mai stato in Russia, l'aggettivo che mi viene subito alla bocca per descrivere Belgrado è: "sovietica".


Io, N, Vacca e due compagni di avventure
Belgrado

Essendoci arrivata alle orecchie la sua nomea di "città del divertimento notturno" e non volendoci far mancare niente, io e Vacca decidiamo di uscire per le strade buie di Belgrado, mentre Enne preferisce stare in ostello e rilassarsi un po'. Siamo diretti al lungo fiume, dove si concentra la movida belgradese. Mentre attraversiamo il grande ponte di ferro, sento per la prima volta l'istinto di tenere ben stretto il coltellino che ho in tasca. Infatti le uniche persone che incontriamo oltre a tassisti e kebabbari, sono gang di energumeni e gruppi di zingari veramente poco rassicuranti. Dopodiché incontriamo una signora che ci fa, in inglese: "da che parte è la Bulgaria, che vorrei fare autostop?". Non abbiamo idea di quale sia la direzione giusta, ma sappiamo che il confine è a oltre 300 chilometri di strada e che è notte. Vorremmo invitarla a desistere, ma lei ha già capito che non serviamo al suo scopo e si è già diretta altrove.

Raggiunto il lungo fiume, si trovano, una dopo l'altra, le imbarcazioni riadattate a locali (mini-discoteche galleggianti). Sebbene sia martedì o mercoledì, la fila per entrare in ognuno di questi locali è abbastanza lunga. Così ne scegliamo una e ci mettiamo ad aspettare, ma quando è il nostro turno ci dicono che è necessario essere "in lista" per entrare. Facciamo un altro tentativo con un locale praticamente senza fila, i cui bodyguard ci ripetono la stessa cosa. Non so se solo per far scena o se perché effettivamente gli italiani godano di un credito da queste parti, ma dopo un accenno di discussione da parte nostra e, riconosciuto il nostro accento, il bodyguard si ricrede e ci fà: "entrate pure, solo perché siete italiani". Purtroppo dentro non c'è molta gente, si vede che la serata deve ancora decollare. Così ci beviamo un drink e poi usciamo per provare a trovare un locale dove invece vibri la turbofolk, il genere musicale per cui ci siamo spinti fino a qui.

Troviamo la Turbofolk nel locale più vicino al ponte, quello che istintivamente avevamo scartato appena arrivati. Si tratta di un karaoke fra uomo virile ed elegante e donna dai tratti scuri e le tette di fuori. La coppia sta sul palco e canta melodie balcaniche, supportata da delle basi tunz-tunz e dai violenti cori degli spettatori ai tavoli. Tutti conoscono le parole a memoria e cantano, atteggiandosi un po' da tamarri ubriaconi ma visibilmente divertiti. Noi per un po' ci godiamo la scena da un tavolino e, dopo aver pagato a una vecchina-cameriera molto furba il doppio o il triplo del prezzo normale, ci avviamo per la stessa strada da cui siamo venuti.

Uno dei locali sul lungo fiume, da Inspirock.com


Al sole del giorno dopo e nella parte storica e politicamente più importante, Belgrado ci sembra meno brutta. E' domenica mattina e camminiamo tranquillamente per la via pedonale che conduce alla fortezza. Una bimba di 9 o 10 anni riempie la strada di melodie con il suo violino. Agli angoli, nelle bancarelle affollate di turisti, si vendono magliette con la faccia di Nikola Tesla. Due signori, invece, nella loro bancarella scassata vendono lacci per le scarpe: solo quello, lacci per scarpe di tutti i colori (e in qualche modo ci campano anche). La povertà in effetti la si vede un po' dappertutto a Belgrado: dalle onnipresenti auto scassate, ai caffè con i vetri crepati.

Facciamo una deviazione per entrare nel Tempio di San Sava, una fra le chiese ortodossa più grandi del mondo. Nella piazzetta davanti al Tempio ci sono dei ragazzi che giocano a calcio e dei vecchi seduti sulle panchine. La facciata esterna è bizantina e ultra simmetrica. Insomma, fino a qua tutto regolare. Ma quando entriamo, iniziamo a notare cose strane. L'ambiente principale è interamente rivestito da un tappeto rosso. Ai bordi della sala ci sono dei grandi quadri religiosi, ognuno appoggiato su un tavolo. La gente fa la fila dinanzi a queste immagini e quando ci si trova davanti appioppa dei baci alle figure. Nel retro stanno invece facendo dei restauri, per cui si vede soltanto un sacco di plastica protettiva appesa alle pareti e un furgone che in qualche modo è riuscito a entrare dentro al tempio e a parcheggiarsi al centro della sala.

Infine raggiungiamo il Parco della fortezza, la quale fu costruita, distrutta, ricostruita e distrutta di nuovo dal tempo dei romani fino a pochi decenni fa (dopodiché evidentemente si stancarono di ricostruirla e la lasciarono così). Un po' dappertutto sono stati ammassati cannoni e armi belliche di altro tipo, ma anche dei dinosauri che dovrebbero attrarre i bambini verso un museo all'interno delle vecchie segrete. Invece in cima c'è un signore che ci convince a pagarlo per farci tirare delle frecce con il suo arco. Ma soprattutto, dall'alto si vede il fiume Sava confluire nel Danubio. E' con questa immagine maestosa che, poco dopo, lasciamo la Serbia per entrare in Romania.

Il fiume visto dalla fortezza di Belgrado
Una strada a caso di Belgrado
"Iconodulia"ortodossa
La patria, il profano e il sacro durante una passeggiata a Belgrado
E improvvisamente siamo in Romania. Il confine da cui passiamo, praticamente, non esiste. E' segnalato da un cartello, mentre l'unico controllo è eseguito da un ragazzo, non in uniforme, che ci dà un'occhiata sommaria e ci lascia passare. A sera inoltrata arriviamo a Sibiu, graziosa città della Transilvania. Non è un aggettivo ironico, Sibiu è davvero bella. Capitale della cultura europea qualche anno fa e sede storica dell'università. La piazza centrale, su cui si affaccia il nostro ostello, è un piccolo gioiello di architettura: colorate case a tre piani e palazzi delle istituzioni disegnano un largo ovale ciottolato, riempito ai bordi dai tavolini delle osterie e al centro da un grande palco scenico. Le altre vie sono forse meno eleganti della piazza ma piene di colori.

La piazza di Plata Mare a Sibiu, da: https://www.blogromania.it

Un pub transilvano
Il giorno seguente ci avventuriamo per la "Transfăgărășan", il folle passo attraverso i Carpazi voluto da Ceausescu. Costruita all'inizio degli anni '70 per fini militari, viene normalmente chiusa al traffico fra ottobre e giugno per precauzione ed è un classico del Giro di Romania di ciclismo e dei motociclisti di tutto il mondo. Per il divertimento di Enne acconsentiamo a lasciarlo guidare per l'intero tragitto. E' il più tortuoso che io abbia mai percorso. Con noi ci sono anche Srikanth e Aryudha, ma ci stiamo tutti e la carica c'è. Le uniche tappe che facciamo sono all'imbocco della Transfagarajan per pranzare e a metà strada per salire in cima a una delle fortezze appartenute a Vlad III, alias "l'Impalatore", alias il Conte Dracula.

Proprio così, Dracula. Ovviamente, il Conte Dracula come noi lo conosciamo (il vampiro) non è mai esistito...è un invenzione letteraria. Tuttavia, il personaggio cui Bram Stocker si ispirò fu Vlad III, sanguinario ed eroico monarca della regione della Valacchia e protettore del Cristianesimo del 1400, quando l'Impero Ottomano aveva conquistato l'intera penisola balcanica e tentava di spingersi più a nord. Leggenda vuole che Vlad rifiutò la richiesta pervenutagli dal sultano di pagare il tributo e di mandare 500 soldati dei suoi in cambio della pace. Il suo rifiuto consistette nell'impalare da vivi i messi mandati dal sultano. Questo non lasciò alternativa al sultano: dovette dichiarare guerra.

Tuttavia Vlad si rivelò una vera spina nel fianco per il sultano, mettendo a colpo una serie di stragi e imboscate ai danni degli ottomani, e costituì l'effimera speranza anche per il cristianesimo del tempo. Come nelle migliori storie, l'unico modo per sconfiggere il Conte fu di affidarsi al fratello, invidioso e anch'egli guerrigliero. Il fratello sconfisse Vlad e usurpò il suo posto, strizzando l'occhio al sultano. Mentre Vlad fu costretto alla fuga, dopodiché venne imprigionato e in seguito rilasciato, ma solo per essere ucciso a tradimento poco più avanti. La leggenda vuole che la sua testa sia stata portata a Costantinopoli come trofeo.

Oggi la Fortezza Poenari non è nulla di che, essendo stata abbandonata dopo la morte di Vlad nel 1477. Tuttavia incamminarvicisi fa un certo effetto, essendo stata per anni il covo di uno dei più sanguinari uomini della storia. La camminata verso la rocca è ripida e attraversa la vegetazione del posto (principalmente conifere). Un elemento che aggiunge piccantezza alla salita, e di cui fortunatamente vengo a sapere dopo, è che i boschi circostanti sono frequentati da popolazioni di orsi in rapido aumento. Alcuni manichini impalati e sanguinolenti alla fine della salita ci danno il benvenuto alla casa del Conte.



Tornati in macchina proseguiamo la strada, che diventa man mano più estrema e d'alta quota. Questo e la pioggia che inizia a cadere ci esalta, e il cd di Scatman nello stereo fa la sua parte. Arriviamo nel punto più alto e scendiamo nella nebbia più totale sotto la pioggia battente. In teoria ci sarebbe un bellissimo lago da vedere in cima alla montagna ma non riusciamo a trovarlo a causa di una nebbia incredibile (così come fatichiamo a ritrovare la macchina). E a bordo il disagio non si affievolisce, ma anzi contagia pure l'indiano e l'indonesiano. E' pura follia transilvanica ancora per un bel po', con vacca che passa più tempo a urlare e a fare foto sgocciolanti fuori dal finestrino invece che dentro alla macchina.

La serata, una volta di ritorno a Sibiu, non cala di intensità. Questa volta a rallegrare l'ormai inseparabile quintetto è una band metal in tour dalla Svezia che suona nella cantina di un pub. L'indiano e l'indonesiano vengono iniziati all'arte del pogo, che noi contribuiamo in buona parte a istigare fra il pubblico rumeno. Anche lì la birra a buon prezzo non manca e i soggetti che incontriamo non sono affatto male. Ma abbiamo altre mete da raggiungere.

La salita della Transfăgărășan e una testimonianza video riesumata dal cellulare  








Così, la mattina dopo, ci concediamo un ultimo giro per il centro di Sibiu e ripartiamo in direzione della vicina Miniera di Turda. Miniera di sale per oltre 2 mila anni, poi occasionalmente luogo di stagionatura per il formaggio e rifugio antiaereo, dagli anni '90 è stata trasformata in meta turistica e spazio futuristico per feste, concerti e gite di famiglia. Una parte della miniera è stata infatti ricoperta d'acqua e attrezzata per andare in barca, mentre in un'altra ala sono state messe delle giostre, dei tavoli da ping pong, un biliardino e un palco scenico. Ma la cosa più figa resta comunque guardare dall'alto dalla balaustra a inizio discesa.

Verso sera arriviamo a Cluj Napoca, per i più cool "Cluj", città universitaria del centro-nord della Romania. Siamo piazzati in una camera trovata su airbnb. Cuciniamo qualcosa e poi ci facciamo del male con un giovanissimo Di Caprio guardando l'imbarazzante, trashissimo, "The Beach". Il giorno dopo giriamo un po' per il centro di Cluj, che purtroppo è un po' deserta a causa del periodo di chiusura dell'università. L'antica rocca del centro storico è carina, ma la cosa che forse apprezzo di più è il Cimiterul Centrale, un verde cimitero anarcheggiante (stile Pere Lachaise per intenderci) dove incappiamo anche nella processione di un funerale. Poco distante c'è una bella chiesa e una zona niente male, dove ci prendiamo un kebab prima di rimetterci in marcia.

Le campagne che attraversiamo, scandite da tipici covoni di paglia a forma conica, mi ricordano tanto un libro che ho letto prima di partire. Si chiama "Lungo la via incantata" ed è la storia di un giovane viaggiatore inglese e del rapporto speciale che riesce ad instaurare con le terre del "Maramures", la sua via incantata. L'incanto è dovuto alla lentezza di queste campagne e delle tradizioni agricole di sapore medievale, che non sembrano essere state intaccate nei secoli dal mescolamento di popoli rumeno-zingaro-sassoni, ma che invece oggi iniziano a trasformarsi a causa della globalizzazione.

La miniera di sale di Turda. Foto da rollingstone.it/  
Arte moderna a Cluj Napoca Monitorul de Cluj 



Foto dall'articolo "Maramures: carri, cavalli ed internet" di gmgalasso61.wordpress.com 
Nel pomeriggio riprendiamo la strada perché vogliamo avvicinarci a Budapest il più possibile, visto che abbiamo in tasca un biglietto giornaliero per lo Sziget Festival. Dormiamo in una camera che è parte di una corte magiara o qualcosa del genere, al confine con l'Ungheria. L'arredamento, la signora affitta-camere e l'atmosfera di quel posto sono alcune delle cose più tradizionali in cui incappiamo in questo breve viaggio. Siamo totalmente fuori dalle rotte turistiche, e ci voleva proprio una deviazione di questo tipo.

Lasciata la Romania ed entrati in Ungheria, puntiamo dritti a Budapest. In un autogrill facciamo il pieno a un buffet che offre la tipica colazione ungherese: uova fritte, wursterazzi e salame. Arriviamo a Budapest per l'ora di pranzo e ci dirigiamo subito all'isola di Obùda dove si tiene il festival più grande d'Europa. Sebbene ci aspettassimo un gran casino, l'atmosfera è abbastanza tranquilla nei dintorni dell'isola e riusciamo a trovare un parcheggio gratuito fra la stazione e un giardino, a pochi passi dal ponte dell'isola. Ci chiediamo dove sia la fregatura, ma la fregatura non c'è!

All'ingresso del festival non ci permettono di intrufolare l'alcol che avevamo cercato di far passare per thé freddo. In compenso incontriamo tre ragazze del nostro del liceo in Italia che stanno in fila proprio davanti a noi. Più avanti durante il corso del festival incontreremo anche alcuni altri amici che non sapevamo essere lì... D'altronde lo Sziget negli ultimi anni sta diventando uno dei punti di incontro della "generazione erasmus" di tutta Europa. Data la location centrale e il giro di artisti che vengono coinvolti, è un'idea che funziona e una calamita micidiale.

Disegno e descrizione a cura di BUDAPEST - WordPress.com 
La parola chiave, il filo rosso della miriade di attività (non solo musicali) che accadono ogni giorno e notte allo Sziget di Budapest, è "divertimento". Tutto è finalizzato a questo, e un po' anche al profitto. Nata come una festa della libertà, una specie di woodstock 2.0, lo Sziget è diventato per forza di cose un evento più commerciale. D'altronde far mangiare e bere, rispondere ai bisogni biologici e trovare una piazzola per la tenda di 2 milioni di ragazzi, oltre che gestire il programma musicale con star da tutto il mondo, richiede grande organizzazione. E tutto sommato ci divertiamo infatti, anche se non becchiamo le nostre band preferite e rimaniamo un po' storditi dal caos in cui piombiamo (col passare delle ore e l'ingresso nella zona calda del festival ci accorgiamo che di casino ce n'è, eccome se ce n'è...!). Verso le 3 o le 4 di notte, stremati, rinunciamo al nostro piano autodistruttivo di tornare in Italia in after.

Ci sistemiamo con i sacchi a pelo in un parchetto residenziale vicino alla nostra macchina e portiamo a casa qualche ora di sonno ristoratore. Il mattino dopo, l'ultimo del nostro viaggio, ci rimettiamo in cammino dopo aver testato un'altra colazione ungherese (un po' più sobria questa volta). E' una domenica di agosto ma le strade ungheresi, slovene e italiane che percorriamo sono mezze vuote. Raggiungiamo senza intoppi nomi di città finalmente comprensibili e via via più famigliari. Così arriviamo a Modena Sud dopo circa 8 ore di viaggio, in tempo per permettere ad N di riprendersi un attimo e presentarsi in tempo a lavoro il giorno dopo.

L'ingresso all'isola all'isola dello Sziget (foto di ilovedunakanyar.hu) e, in video, uno dei momenti più belli del nostro Sziget




Di questo viaggio ci rimarranno: un cartone pieno di nomi di persone incrociate lungo la nostra strada e nomi di città impronunciabili; un mucchio di monete di valuta diversa; ricordi confusi, nebulosi come l'aria del Kino a Sarajevo o la nebbia da tagliare a fette sulla cima della Transfăgărășan. In compenso ci ricordiamo molto bene l'interno della macchina di N, ognuno con il suo posto preferito (il mio quello dietro, fra le briciole e le magliette sporche...ma con lo spazio per stendersi). 

Non scorderò mai: il vento croato seguito da un tramonto che scalda il cuore e la pelle ruvida; il sapore che ha il primo morso di un Cevapi quando hai veramente fame; le vibrazioni dello stereo di una suzuki su di giri mentre pompa gli ACDC sotto la pioggia battente; le bancarelle, i fori di proiettile e le tombe bianche di Sarajevo; l'adrenalina di un ballo zingaro al suono di un orchestra di trombettisti.  

Cosa cambierei: I tempi. Forse anche il mezzo, perché sarebbero posti da assaporare lentamente. Ma non sempre si ha un mese di tempo. E quindi per questa volta è andata bene così, con un'ossatura di organizzazione e una macchina funzionante. Ma mi riprometto di tornare ancora nei Balcani e di esplorare di più.     

Mi porto dietro questa cornice po' strana, povera, trash, affascinante -in una parola, balcanica- che ci ha accompagnato e che si è manifestata più o meno ovunque (nei luoghi, nei cibi, nella musica, nelle persone). Ci penso e non posso che sorridere un po' amaramente, perché è rimasto un pizzico di nostalgia dentro di me.


E infine un grazie speciale ai miei compagni di viaggio: a Vacca per la pianificazione di buona parte del viaggio e a N per il bolide su cui abbiamo viaggiato e per molte delle foto che avete visto