martedì 17 settembre 2019

Uganda - Parte III - "Una Finlandia equatoriale"

La zona a sud dell'Uganda è ricoperta di boschi ed è contornata da grandi e piccoli laghi. Non me l'aspettavo, nel mio immaginario non c'era questo lato rigoglioso e acquifero dell'Africa. Mi aspettavo piuttosto delle savane e delle gran distese aride, e invece mi sono trovato davanti una specie di "Finlandia equatoriale".

E' intorno al Queen Elizabeth National Park che inizia questa regione. Siamo infatti nella faglia Albertina della Rift Valley, culla dell'umanità e generatrice di impressionanti vulcani e catene montuose. Già solo a una trentina di chilometri a sud di Fort Portal si trovano una miriade di piccoli laghi di origine craterica: i Crater Lakes legati al vulcano Katwe. Io e Yasmin ci arriviamo a bordo di un auto scassata, guidata dall’ennesimo tassista abusivo. La morfologia del territorio non rende semplici gli spostamenti su strada, dove sono le moto a farla da padrone. Alcuni insediamenti si trovano infatti arroccati sui lembi di terra compresi fra i laghi di montagna, mentre le strade sono sterrate e in certi punti fangose.

I Crater Lakes sono molti (una trentina), ma noi ci dirigiamo verso il Lake Nkuruba, che a detta di alcuni è il più bello. Si trova all'interno di una riserva naturale, che lo circonda tutto intorno. Su nostra richiesta, ci viene concesso di piantare la tenda a pochi passi dall'acqua, dove alcuni giovani occidentali stanno facendo il bagno. Man mano che scende la sera, mentre io combatto per cuocere un po' di riso su un falò, mi sento sempre più "risucchiato" dalla giungla. I suoni che ci circondano sono qualcosa di incredibile... E la sensazione che provo, non appena passata la frustrazione per la mia incapacità scoutistica, è di pura ammirazione per questo habitat primordiale. E' la stessa che provo la mattina dopo una volta in acqua, mentre la foresta si sta svegliando e le scimmie bianche e nere iniziano a lanciarsi da un albero all'altro.


Io in attesa presso una delle poche pompe di benzina della zona, nel mezzo di un mercato in alta quota

Un lago craterico e, sotto, il lago Nkuruba con un abitante

E' invece pomeriggio quando raggiungiamo le porte d'ingresso del Queen Elizabeth National Park, una delle aree protette più famose del paese. Ci accampiamo appena fuori, presso un campeggio situato a riva del grande Kazinga Channel. Ci viene detto che il corso d'acqua è abitato da ippopotami e coccodrilli, ma che non dobbiamo preoccuparci "perché non si avventurano mai fino a quassù". Ecco, di lì a poche ore saremo svegliati proprio da una rumorosa famiglia di ippopotami, fortunatamente senza realizzare di cosa si trattasse.

E' durante la stessa notte, apprendiamo, che 13 leoni vengono avvelenati a morte da alcuni allevatori esasperati dagli attacchi al loro bestiame. Ce lo dice un giovane biologo inglese, da settimane sulle tracce dei leoni presenti nel Parco. Improvvisamente prende il sopravvento in me una sensazione opposta a quella provata il giorno prima sulle rive del lago Nkuruba: una forte rabbia e una schifosa vergogna per chi ha compiuto questo atto sacrilego, nei confronti della creatura forse più rappresentativa di questo luogo primordiale. 

Ma purtroppo non possiamo farci niente, per cui ci tiriamo su e ci prepariamo a iniziare un altro giorno a spasso per questa Finlandia equatoriale. Ad attenderci c’è una buffa guida, navigata e bella in carne. Da lei imparo che le ananas vanno tagliate per il lungo, come si fa per le angurie, dato che la parte più zuccherina si trova al centro del frutto. Ovviamente la prima fetta, tagliata in modo errato e pertanto alquanto insapore, l’avevo offerta a lei…ricevendo in cambio un secco rifiuto e un’offesa per la mia sfrontatezza (prima) e per la mia imbranatezza (poi). 

Il Parco è immenso, rispetto al Parco delle Murchison Falls c’è una densità di animali un po’ minore e meno imbarazzante. Vediamo comunque un po’ di tutto e poi ci dirigiamo a mangiare presso un locale affacciato sulla spiaggia dove giornalmente avviene un raduno di mammiferi d'ogni tipo che neanche il Jova Beach Party. Sulla via d’uscita dal Parco carichiamo il figlio della guida, un ragazzone febbricitante per via della malaria. Ci spiegano che c’è poco da fare al riguardo del problema malaria: ormai sono abituati a conviverci e nessuno -eccetto gli occidentali- fa uso delle profilassi per la malattia, è poco pratico e costoso. Sarà anche per questo che vediamo tante persone appisolate in giro per l’Uganda.

Scatti dalle Murchison Falls e dal Queen Elizabeth National Park



A ovest, nelle foreste di confine con Congo e Rwanda inizia l'habitat dei gorilla beringei (specie a rischio estinzione fino al 2018). Noi la costeggiamo a bordo di un matatu e raggiungiamo Mbarare di sera, dove mangiamo una buona pizza (la prima in Uganda) e alloggiamo vicino alla stazione degli autobus. Poi la mattina seguente ripartiamo procedendo in direzione del Rwanda, fino a raggiungere Kabale. Kabale è piccolina, fondamentalmente una strada con case e negozi ai lati. Ci accorgiamo che ci sono parecchi turisti occidentali in giro. Mentre un senza-tetto dorme a un lato della strada principale, sul cemento: lo sorprendo lasciandogli un pezzo di pane per colazione.

Poi ci attiviamo per raggiungere la nostra destinazione: il Lake Bunyoni. Abbiamo letto di un campeggio su una delle isole al centro del lago e vorremmo accamparci lì con la tenda per i prossimi giorni. Non è cosa facilissima raggiungere il lago, poiché c'è una vera e propria montagna a dividerlo dal paese. Ancora una volta ci affidiamo ai boda-boda, ovvero ai motociclisti che si improvvisano tassisti. Coi nostri zainoni e con il peso di una persona in più, i poveri motorini a 2 tempi se la vedono brutta su per le salite...ma ce la fanno! Ci scaricano in riva al lago, dove aspettano pronti i tassisti abusivi d'acqua, con le loro piccole imbarcazioni colorate di blu e di giallo.

Quando gli diciamo "Grazie ma non ci serve un passaggio, vorremmo raggiungere l'isola in canoa", i traghettatori ridono e ce lo sconsigliano fortemente. Alla fine ci accompagna uno di loro, con la barca a motore. (Effettivamente l'isola era molto lontana e fortunatamente non ci siamo intestarditi). Il campeggio si estende all'intera isola, che non è molto grande. Si respira un'atmosfera stranamente occidentale: le varie aree del campeggio sono debitamente segnalate con dei cartelli, ogni cosa è costruita con cura, prevalentemente usando il legno (dall'edificio centrale con cucina, reception e veranda vista lago, alle compost-toilet in giro per l'isola e ai bungalow costruiti sopra e sotto agli alberi) e in generale tutto è molto tranquillo e pulito. Il mistero dietro a questa atipica isola d'Uganda è presto svelato: è un architetto americano che ha investito in questo progetto.

Tuttavia, ci accorgiamo nei giorni seguenti che in generale tutta l'area intorno al Lake Bunyoni -caratterizzata da coste frastagliate e meticolosi terrazzamenti, degni delle piantagioni di thé asiatiche- tende a distinguersi dall'Uganda vista fino ad ora. Dev'essere l'influenza del vicino Rwanda, ad oggi uno dei paesi più democratici e più sviluppati del continente (a quanto ci dicono le persone che incontriamo). Il lago stesso è un eccezione, essendo l'unico o tra i pochi laghi balneabili (è profondissimo, "biharzia free" e privo di ippopotami e coccodrilli). In giro per le isole e lungo le coste del lago si trovano dei Resort di lusso, che evitiamo come la peste. 


Il Lake Bunyoni con il sole [fonte: https://www.bunyonyi.org] e, sotto, prima della pioggia

Nel pomeriggio abbiamo la sciagurata idea di noleggiare una “tree dugout canoe”, fondamentalmente un tronco scavato all’interno. Pesantissima. Aggiungiamoci che né io né Yasmin siamo dei grandi esperti di canottaggio, ma che abbiamo idee diverse su come pilotarla e che siamo entrambi testardi come dei muli. Il risultato è presto servito: mani sanguinanti, meta assolutamente non raggiunta e un’incazzatura reciproca alle stelle. Paradossalmente, a salvarci è una pioggia torrenziale che ci costringe a ripararci e a tenerci caldo a vicenda dentro a una cabina avvistata vicino alla riva di un’isola. 

Il resto della giornata va decisamente meglio. Ci facciamo un giro sull'isola dove siamo praticamente naufragati e avvistiamo la prima e ultima zebra, e soprattutto il primo struzzo (simbolo nazionale), del nostro viaggio. Poi una volta tornati otteniamo il permesso da parte dello staff di usare la cucina del campeggio per cucinare il nostro cibo, mentre lo cheff e le donne dell’isola sono all’opera con le loro ricette. Il gestore del campeggio ci invita poi a fare uso della biblioteca e a noleggiare un film. Sembra stupido, ma dopo oltre 2 settimane senza tv, potersi guardare “L’ultimo Re di Scozia” è un piacere grandissimo. Purtroppo però siamo ormai alla fine del nostro viaggio. Yasmin e io abbiamo percorso già molta strada, e non siamo neanche troppo stanchi. Ma è ormai tempo di tornare verso la capitale. Lei vuole avere il tempo per salutare alcune delle persone che la hanno accompagnata durante queste settimane di interviste e di ricerca sul campo. 

Così il giorno seguente raggiungiamo nuovamente Mbarare, con un’altra sciagurata idea in mente: prendere un autobus notturno fino a KampalaInutile dire che il mezzo non parte finché anche l’ultimo sedile non viene riempito, se non ti è chiaro il concetto leggi l’episodio Uganda - Parte 3 "Un vecchio bus verso ovest" su questo blog e capirai. Seduto di fianco a noi noto subito un signore un po’ anziano in condizioni abbastanza precarie. Nel corso della notte la sua situazione sembra peggiorare, al punto che mi sento in dovere di fargli prendere qualcuna delle medicine che mi sono rimaste. Lui accetta di buon cuore e poi si addormenta, per poi alzarsi, ringraziare e scendere in qualche parte imprecisata dell’Uganda. Davanti a noi c’è invece il tipico ragazzo che non possiede (o non vuole usare) le cuffiette ma che ha davvero bisogno di ascoltare della musica. Il problema è che possiede una sola canzone, “Buffalo Soldier” di Bob Marley, e che non se ne stanca. D’altronde neanche l’autista ha intenzione di rinunciare alla musica, che viene sparata insieme ai video musicali dallo schermo davanti.

E così, accompagnati dalle sonorità africane di Eddy Kenzo con interferenze jamaicane, e interrotti ogni tanto dai deliri del vecchio morente, ci dirigiamo verso la capitale. Il bus sembra fermarsi in continuazione. E nonostante sia notte, alle fermate c'è comunque gente che vuole vendere qualcosa. Finalmente verso le 5 di mattina arriviamo, sonnolenti, e fuori c’è una pioggia dirompente. Io sono molto confuso perché nessuno si muove, tutti continuano a dormire. Eppure siamo arrivati… Scendo per vedere se siamo effettivamente a Kampala e se c’è qualche mezzo per raggiungere il centro. Lo siamo. Un tizio al riparo di una tettoia mi dice: “Musungu, con la pioggia i boda-boda non lavorano: tutti aspettano che smetta. Altrimenti costa troppo”. Ringrazio e torno sul bus, ma fa caldo e non c’è aossigeno lì dentro. Così convinco Yasmin a prendere un taxi (un uber per la precisione), mentre nessun’altro si muove e io mi sento ancora una volta un’occidentale viziato.

Un paio di giorni dopo siamo di nuovo quasi ad Entebbe, dove il nostro viaggio era cominciato (vedi Uganda – Parte 1. “Entebbe e la mia valigia”). Ci aspetta una notte in aeroporto a Nairobi, in Kenya, e un cambio ad Amsterdam. Poi il freddo Aprile della Svezia, e la vita di tutti i giorni dello studente sotto tesi, ci aspetteranno al varco. Ma prima, a pochi passi dal Lake Victoria, il tassista accosta la macchina e ci propone di scendere. “Un ultimo saluto a questa terra!” dice. Così scendiamo e raggiungiamo la riva del lago. Un gruppo di uomini e di ragazzi del posto è intorno a un fuoco sulla sabbia. Uno di loro, vedendoci lì a guardare lontano, si avvicina a noi. Si rivolge soprattutto a me. E’ palesemente sotto effetto di qualcosa, e così dal nulla mi dice: “You how it is to become a father? Like a resurrection”. 

Con questa immagine in testa lascio l’Uganda. Un paese con una situazione demografica opposta al paese da cui provengo (il 50% della popolazione ha meno di 15 anni). Un paese dove le persone sono povere e non possono godersi le bellezze che la loro terra avrebbe da offrire, perché spesso accessibili soltanto al portafogli occidentale. Un paese accogliente, dove molti sono disperati ma sanno ancora assaporare la vita e ti guarderanno con curiosità. Un paese dove il turismo di massa non è ancora arrivato. Un paese con 40 lingue e un imprecisato numero di religioni e credenze. Un paese che ha visto la guerra civile e che ora vive all’ombra di una dittatura mascherata, ma che non si è affatto spento. Un piccolo paese pieno di cose grandi: le montagne, il Nilo, i laghi, la RIft Valley e la foresta equatoriale. Un paese africano, che già questo basterebbe a giustificare un viaggio se si vuole mettere il naso fuori dal rassicurante orticello di casa e farsi un’idea della parola “diversità”.

Io, Yasmin e le giraffe