A fine ottobre del 2015 approfitto di un progetto di collaborazione
fra alcune università per scendere a Palermo, principale città di una
terra dove non sono mai stato. Parto da casa all'alba di un sabato
mattina autunnale e poco dopo le 8 sono già con i piedi sull'isola.
“Lunedì conoscerò gli altri studenti che partecipano al progetto, mentre
questi due giorni li userò per girarmi a modo Palermo” penso. Però
intanto sono da solo e mi sento un po' spaventato, è infatti molto tempo
che non faccio esperienze simili e non so bene cosa mi aspetti. Starò
via 10 giorni, di cui solo tre impegnati dalle attività del progetto. Ma
ho molte idee e un piano di massima per gli spostamenti.
Così atterro
in anticipo all'aeroporto Falcone-Borsellino di Punta Raisi (a 30 km dal
centro di Palermo), ricavato in un esiguo spazio fra il mare e le
montagne. Esco all'aperto, zainone in spalla, e mi scontro subito con
questo problema della “mafia”: l'aeroporto sarebbe collegato alla città
da una linea ferroviaria, la quale però è interrotta da alcuni mesi per
lavori ed è sostituita da autobus; se non fosse che questo servizio
inspiegabilmente non parte dal terminal, ma a 1 km e mezzo di strada -in
località Pinareto- e pertanto la stragrande maggioranza dei passeggeri
diretti a Palermo non fa uso di questi autobus, ma di quelli privati
(della compagnia Presti e Comandè), o dei taxi, parcheggiati proprio
fuori all'uscita degli arrivi. Mentre cerco di comprendere la situazione
e valutare a chi affidarmi (e soprattutto a chi affidare i miei soldi)
vedo un gruppo di tassisti appoggiati alle loro macchine e mi avvicino
per chiedere informazioni. Sapendo che Cinisi -il paese natale di
Peppino Impastato dove si trova anche un museo a lui dedicato- dista
meno di 10 km dall'aeroporto, provo a sentire quanto vogliono per un
passaggio fino a lì. Mi dicono, dopo un secondo di esitazione vista
l'originalità della richiesta, che la tariffa minima è 35 euro
(praticamente la stessa per andare a Palermo). Ma la cosa curiosa è che
subito dopo iniziano a parlare male di Cinisi e cercano di distogliermi
dall'idea di andarci. Quando gli dico che è per il museo di Peppino,
cominciano a parlare male del personaggio e affermano che “se Cinisi è
ancora in piedi è soltanto per un certo Don Tano, che ha fatto costruire
questo aeroporto lì vicino”. Dopodiché ci salutiamo, chiaramente il
prezzo del loro servizio e quella compagnia non è nei miei interessi.
Alla
fine però devo cedere alle circostanze e al peso sulla schiena,
rinunciando così alla pazzia di scalare il monte che mi separa da Cinisi
e dirigendomi direttamente a Palermo. Ci arrivo con un taxi condiviso
con altre 7 persone, per il quale pago 8 euro. Il mio ostello è molto
internazionale e vicino a Piazza Marina, sebbene la facoltà sia lontana
quello che mi convince è la tariffa (16 euro e la colazione in bella
vista). “Parto un po' prima e mi faccio una bella passeggiata, o al
limite prendo l'autobus”, mi sono detto. Entrambe le cose si sono
rivelate più facili a dirsi che a farsi: Palermo ha i marciapiedi più
stretti che io abbia mai visto e la guida meridionale (per uno come me
praticamente mai sceso sotto Roma) è un'esperienza di vita che può dare
da fare nei primi giorni, richiedendo quattro occhi al posto di due
(uno, contando che l'altro è fisso in giù a guardare google maps ed
schivare le cacche di cane); gli autobus urbani possono invece cambiare
la vita del malcapitato turista, sempre che la destinazione sia
abbastanza centrale e non quasi in periferia come la mia. Tuttavia
l'uomo è un essere dotato di grande capacità di adattamento e così
anch'io, dopo l'iniziale stordimento, inizio a cavarmela e a
destreggiarmi in questa giungla di città.
I miei giorni a Palermo passano in fretta, tra il progetto all'università che mi occupa la mattina e parte del pomeriggio, le serate con alcuni ragazzi conosciuti in ostello e i giri in solitaria per annusare e perdermi fra le vie della città. Molti angoli di Palermo non fanno un buon odore, provano anzi a respingerti in tutti i modi con la loro inquietante penombra e gli sguardi storti degli abitanti. Eppure questa città possiede il fascino della storia stratificata e del Mediterraneo che ti cattura. É una città di mare, abituata dal tempo dei greci ad essere capitale e centro economico dell'isola. È fatta di viuzze oscure e pochi viali larghi scavati fra le casupole che conducono a piazze dove si affacciano grandi chiese per lo più barocche. Indimenticabili i Quattro Canti, la piazza ottagonale dove si incrociano le due arterie principali (via Maqueda e Via Vittorio Emanuele) e su cui si affacciano i quattro edifici in passato più importanti per la vita di Palermo: lì venivano fatte sia le feste pubbliche che le esecuzioni.
Indimenticabili i Ficus di Piazza marina e dei giardini botanici (che cinque uomini non basterebbero per abbracciarli) e i tristissimi lecci nodosi a bordo strada. Indimenticabile il frastuono dei mercati e il rombo notturno dei motorini sui ciottoli.
Isola delle femmine è un paese che si trova sul breve tratto di costa che sta di fronte a un isolotto brullo a largo degli scogli, sormontato da una torre oggi diroccata. Sebbene il nome e la presenza di tale torre abbiano dato origine a leggende e dicerie fantasiose (come quella secondo cui la torre dell'isola era un tempo la prigione per le donne dell'isola), sembra in realtà che il nome derivi semplicemente dal buffo processo di italianizzazione di un termine della lingua locale e che la torre facesse parte del sistema costiero di avvistamento per i corsari. Un'altra cosa interessante di Isole delle Femmine è anche il fatto che, da qualche anno a questa parte, lì si trova la sede di AddioPizzo, storica associazione antimafia che sono andato a conoscere. Attraverso un bando statale o regionale hanno ottenuto di convertire la vecchia casa abbandonata del ferroviere del paese e di farne la loro base. Ora i muri sono stati ri-imbiancati e tappezzati di foto, le porte e le finestre sono colorate, oltre ai di tavoli e ai computer c'è un divano e una cucina, e un terrazzo assolato che dà sulle distese di rotaie e sulle barche dei pescatori. Attraverso un'amica mi sono messo in contatto con Dario, che mi accoglie e mi presenta agli altri impiegati di questa associazione specializzata nella lotta alla pratica del pizzo e nella promozione del consumo critico e consapevole. Il telefono squilla continuamente e l'agenda di Dario si riempie di scritte e di appuntamenti.
Fra una telefonata e l'altra, mentre aspetto di riprendere il discorso per cui ci siamo incontrati, percepisco l'energia che sta dietro questa battaglia: quella che pulsa entro quei muri, in persone come Dario, che hanno dedicato la propria vita a questa causa, e l'energia che è stata messa finora come testimoniano le storiche foto appese dovunque intorno a me. Alla fine riusciamo a parlarci e a metterci d'accordo: riesco a strappargli la disponibilità a venire a trovarci in primavera per un festival che collaboro a organizzare! Assisto a una riunione interna e, mentre ascolto, penso che mi piacerebbe lavorare in un posto come quello, respirando aria di mare e facendo qualcosa di utile per la mia città. Infine una collaboratrice che lavora per il progetto di “turismo etico” gentilmente mi offre un passaggio in macchina per il centro di Palermo. Parliamo delle gite e dei viaggi di gruppo che da qualche tempo hanno iniziato a organizzare, e rimango entusiasta dell'idea: oltre alla tradizionale visita dei luoghi-simbolo della Sicilia e della storia dell'antimafia, offrono bike tours attraverso l'isola, cicli di seminari e incontri per conoscere le storie più significative del movimento dell'antimafia (come le esperienze di Libera Terra di riconversione di beni confiscati alla mafia in attività “pulite”); il tutto appoggiandosi a strutture, ristoratori e fornitori e compagnie di trasporto pizzo-free, per restituire dignità a questa terra e dare visibilità e sostegno a coloro che stanno lottando per il cambiamento.
La sera del mio quinto e ultimo giorno a Palermo un improvviso nubifragio mi sorprende senza giacca e senza ombrello lontano dall'ostello. Ho appena preso una granita e salutato un amico che ho conosciuto al progetto (ma che in realtà studia a Bologna ed è solo un paio d'anni più indietro di me). Suo padre è anziano e ha vissuto a Palermo fino a 20 anni. Abbiamo avuto la fortuna di averlo come guida per la Cappella Palatina, con tutta probabilità la chiesa più bella che abbia mai visto finora. E' un ambiente piccolo tutto sommato, niente di maestoso, e risale al tempo in cui il Re Ruggero II la fece costruire insieme al Palazzo dei Normanni.
Commissionò un progetto bizantino ad artigiani in buona parte arabi e il risultato è qualcosa di indescrivibile. Guardare i dettagli, fra l'altro realizzati interamente attraverso la tecnica del mosaico, così belli e così piccoli mi ha fatto provare una sensazione simile a quella che provai al liceo quando mi fu spiegato in filosofia uno dei paradossi di Zenone: “non si può giungere all'estremità di uno stadio senza prima aver raggiunto la metà di esso, ma una volta raggiunta la metà si dovrà raggiungere la metà della metà rimanente e così via, senza quindi mai riuscire a raggiungere l'estremità dello stadio”. So che suona esagerato (e ovviamente lo è), ma è un po' come pensare a cosa ci sia oltre all'universo (verso dove si sta espandendo?) ma al contrario; è rendersi conto della sostanziale infinitezza di alcune cose (le stelle nel cielo, i granelli di sabbia in una spiaggia, e i tasselli di azzurro della Cappella Palatina).
Fatto sta che mi ero lasciato tutto questo alle spalle e mi trovavo molto lontano, nei pressi di corso Maqueda, quando sono iniziate a scendere le secchiate di acqua fredda dal cielo già nero. Le strade hanno quasi subito iniziato ad allagarsi e la gente a chiudersi in casa. Sono arrivato zuppo in ostello, mi sono fatto una doccia e ho preparato la valigia per lasciare Palermo all'indomani. Sebbene avessi ancora Monreale e mille altre cose della città da vedere, era tempo di ripartire e dirigersi verso l'altro grande fuoco dell'isola, quello naturalistico, e cioè l'Etna. Le piogge della burrascosa nottata avevano provocato frane che impedivano ai treni per Catania di circolare e ai bus di fare la normale tratta attraverso l'autostrada. Così mi ritrovo a percorrere minuscole stradine di montagna su questo autobus da gita scolastica pieno di persone scombussolate e con la pancia in subbuglio per via di “questa pioggia maledetta”. Mentre io sono felicissimo di attraversare paesini arroccati sulle montagne palermitane (come le Madonie e i Nebrodi) e avvicinarmi con più gradualità e naturalezza all'Etna, il “gigante d'Europa”.
Ad aspettarmi a Belpasso, uno dei paesi ai piedi del vulcano e a pochi chilometri da Catania (che si trova sul mare), c'è Tito. Sono infatti ospite di un paio di famiglie legate dalla scelta di una vita “familiarmente comunitaria” e incentrata sul progetto di trasformazione di un posto magnifico ma abbandonato da molti anni. “Le Tre Finestre” è il nome di questa grande tenuta, dove una volta si estendevano ettari di vigna per la produzione del famoso vino bianco dell'Etna e dove oggi sono cresciuti invece tantissimi ulivi. Ci sono due nuclei di case completamente ristrutturati e un'ex chiesetta senza porta, dove gli adulti delle famiglie si raccolgono ogni mattina prima di dividersi ognuno per le proprie attività quotidiane. Io ho la fortuna di alloggiare in un grande stanzone proprio a fianco della chiesetta. Un bellissimo parquet al centro della sala e alcune finestre sopraelevate regalano all'ambiente un aspetto teatrale ed accogliente.
Resto
lì come ospite per quattro notti e ricambio la generosità di Tito,
Nella, Manfredi e Fabìola partecipando ai lavori che ci sono da fare in
campagna e dando una mano in cucina. Il weekend in cui sono capitato c'è
infatti molto da fare in cucina perché sabato è un giorno di festa: è
il compleanno di una delle bimbe delle famiglie, e arrivano i parenti
stretti di Fabiola e Manfredi. Improvvisamente mi trovo quindi seduto a
una grande tavolata a mangiare e a stringere le mani di persone molto
accoglienti e calorose, che non mi fanno sentire affatto un pesce fuor
d'acqua. Al pranzo di compleanno segue ben presto una cena più
“frugale”, dove ci si ritrova di nuovo tutti insieme. Il giorno
seguente, domenica, tutti i parenti sono ancora lì, dopo una notte
passata sistemati alla bell'e meglio, e partecipano in qualche modo alla
vita comunitaria delle Tre Finestre. I ritmi sono lenti, la loro visita
non è un toccata-e-fuga-perchè-si-deve-fare ma è una visita in tutta
tranquillità, per il piacere di stare insieme. Questo vale soprattutto
per i genitori di Manfredi, che hanno contribuito attivamente con
l'acquisto del podere e alla ristrutturazione degli edifici, e che sono
membri a tutti gli effetti della comunità delle Tre Finestre pur
abitando lontani.
Questo tipo di comunità segue le regole delle Comunità dell'Arca, molto diffuse in Francia e ispirate ai valori di convivenza di Lanza del Vasto e di Gandhi. Si tratta di una comunità molto piccola e un po' sui generis rispetto alle grandi comunità del passato o di altre realtà. A parte Tito, che lavora quotidianamente nel carcere di Catania, le altre persone adulte sono occupate interamente dalle attività della comunità: i lavori in campagna, nei laboratori di trasformazione dei prodotti agricoli e delle erbe aromatiche e di lavorazione del cuoio assorbono infatti molto tempo e vorrebbero garantire presto un reddito sufficiente all'autosostentamento. Periodicamente, gli abitanti delle Tre Finestre e i singoli e le famiglie a loro vicine si ritrovano e rinnovano la volontà di proseguire su strade affini e condivise, così come avviene anche a livello nazionale e internazionale (mondiale!).
Questo tipo di comunità segue le regole delle Comunità dell'Arca, molto diffuse in Francia e ispirate ai valori di convivenza di Lanza del Vasto e di Gandhi. Si tratta di una comunità molto piccola e un po' sui generis rispetto alle grandi comunità del passato o di altre realtà. A parte Tito, che lavora quotidianamente nel carcere di Catania, le altre persone adulte sono occupate interamente dalle attività della comunità: i lavori in campagna, nei laboratori di trasformazione dei prodotti agricoli e delle erbe aromatiche e di lavorazione del cuoio assorbono infatti molto tempo e vorrebbero garantire presto un reddito sufficiente all'autosostentamento. Periodicamente, gli abitanti delle Tre Finestre e i singoli e le famiglie a loro vicine si ritrovano e rinnovano la volontà di proseguire su strade affini e condivise, così come avviene anche a livello nazionale e internazionale (mondiale!).
Alla fine anche
la domenica si rivela un giorno di festa: dopo la raccolta comunitaria
di qualche sacco di olive per la messa sott'olio e un piatto di pasta
saporitissimo, è l'ora per l'ascesa a uno dei crateri dell'Etna. Il
vulcano è infatti una distesa paurosa di crateri e lava delle vecchie
eruzioni che gradualmente separa il cratere principale dai primi boschi e
dai paesi sottostanti. Per avvicinarsi bisogna però fare curve e salite
di strada di montagna, che ben presto lascia il passo a un paesaggio di
tipo lunare. Al cratere dove siamo diretti, il più vicino, ci arriviamo
praticamente senza mettere piede fuori dall'auto. Troviamo una gran
folla di gente in gita domenicale, che si guarda intorno, scavalla
crateri spenti e raccoglie souvenir da portare a casa. La cima del
cratere principale è lontana e ancora altissima (3343 m). Mi dicono che
per arrivarci occorrono almeno sette ore di cammino da lì o 50 € di
seggiovia, e purtroppo non possiamo permetterci nessuna delle due cose.
Così ci accontentiamo di osservarlo da laggiù, dove ci sentiamo già un
po' calati nel mondo infernale dei vulcani (se solo non fosse per i
rumori di auto e dei gruppi di turisti che inevitabilmente ci richiama
alla realtà).
Passato anche l'ultimo giorno alle Tre
Finestre è tempo di prepararsi per il ritorno a casa. Prima del volo ho
tempo di vedere qualcosa anche di Catania, così saluto tutti e sfrutto
il passaggio mattiniero di Tito. Approdo in Via Etnea, la spina dorsale
della città dove convergeranno anche i miei giri a zigzag per il centro
storico. Ho modo di attraversare i due mercati principali della città
(quello alimentare-misto e quello specifico del pesce) e bermi una bibita super dissetante allo sciroppo di limone e mandarino a uno dei chioschetti che si trovano fra le bancarelle. Passo davanti all'università, che è una di quelle più attive nel mio ramo di studi (agraria) anche a livello internazionale, e mi dirigo verso il castello. Ho infatti casualmente letto che al suo interno c'è una mostra di Chagall, uno dei miei artisti preferiti. Entro e non trovo quasi nessun altro visitatore, così mi godo un piacevolissimo percorso fra le sue opere e le stanze del piccolo castello.
(quello alimentare-misto e quello specifico del pesce) e bermi una bibita super dissetante allo sciroppo di limone e mandarino a uno dei chioschetti che si trovano fra le bancarelle. Passo davanti all'università, che è una di quelle più attive nel mio ramo di studi (agraria) anche a livello internazionale, e mi dirigo verso il castello. Ho infatti casualmente letto che al suo interno c'è una mostra di Chagall, uno dei miei artisti preferiti. Entro e non trovo quasi nessun altro visitatore, così mi godo un piacevolissimo percorso fra le sue opere e le stanze del piccolo castello.
Inizio presto a riconoscere accenti e paesaggi familiari e non posso fare a meno di notare le differenze fra questi due mondi (il nord e il sud Italia) che ho in breve tempo attraversato: il costo di una cena al volo; il cielo e la temperatura; i decibel nelle strade. Ma l'ultima di questo mio viaggio, mentre attraverso la stazione di Bologna, mi viene da pensare anche a questo potere illegale e sotterraneo, di cui sempre più spesso si sente parlare in riferimento alle nostre coordinate e che quindi sembra accomunarli in qualcos'altro questi due mondi. Mi ricordo dei processi per mafia che sono attualmente in corso nella mia città e mi viene alla mente un dato che ho sentito dire di recente da Gaetano Alessi, siciliano impegnato da anni contro la mafia al Nord: “in Emilia Romagna il 19% delle imprese è già vittima di pizzo o di usura”. Ed ecco che il sapore in bocca torna agro-dolce, non so più cosa pensare della terra che mi ha accolto in questi ultimi dieci giorni e nemmeno della terra dove sono nato. Allora non faccio più nulla, spengo il cervello, e mi addormento del bel sonno di chi ha vissuto davvero per un po' ed ora è stanco.